Perché il 20 giugno si celebra la Giornata mondiale del rifugiato?
La Giornata mondiale del rifugiato si celebra per commemorare l’approvazione della Convenzione relativa allo status dei rifugiati da parte dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, primo atto internazionale contenente una definizione globalmente condivisa di “rifugiato”.
La prima Giornata Internazionale del rifugiato è stata celebrata nel 2011, in occasione del 50° anniversario dell’entrata in vigore della Convenzione del 1951.
Cosa accade oggi, a quasi 70 anni dall’entrata in vigore della Convenzione di Ginevra e a 18 anni dalla creazione della Giornata Mondiale del rifugiato?
Leggendo l’ultimo rapporto dell’UNHCR, Global trends, Forced Displacement in 2018 (https://www.unhcr.org/5d08d7ee7.pdf), che monitora la situazione degli sfollati forzati, si viene a sapere che il numero totale di sfollati a livello mondiale è aumentato, raggiungendo, alla fine dello scorso anno, quasi 71milioni di persone. Rientrano tra questi profughi, richiedenti asilo, sfollati interni, rimpatriati e apolidi, ossia tutti coloro i quali sono stati costretti ad abbandonare il luogo abituale di residenza a causa di conflitti, persecuzioni, violenze o altre violazioni dei diritti umani, ai quali l’UNHCR fornisce assistenza e protezione.
Si tratta del livello più alto registrato dall’Agenzia ONU in 70 anni di attività.
Non che negli anni passati l’andamento sia stato molto diverso.
Nell’ultimo decennio, la popolazione mondiale degli sfollati forzati è passata dai 43milioni circa del 2009 ai 70,8 milioni del 2018. Questo aumento è conseguenza non soltanto della guerra civile in Siria, ma anche di situazioni di conflitto presenti in altri Paesi mediorientali, quali Iraq e Yemen, e africani, come Repubblica democratica del Congo e Sud Sudan, o ancora del massiccio afflusso di rifugiati Rohingya in Bangladesh.
Nello specifico, come per l’anno precedente, anche nel 2018, oltre i 2/3 dei profughi a livello mondiale provengono da soli cinque Paesi: Siria, Afghanistan, Sudan meridionale, Myanmar e Somalia. Altri Paesi di origine sono l’Eritrea e l’Iraq.
Di questi circa la metà sono minori. Tendenza anche questa tristemente confermata rispetto agli anni precedenti.
Riguardo i Paesi c.d. di arrivo, dalla stessa pubblicazione dell’Alto Commissariato ricaviamo che circa 4 rifugiati su 5 vivono al momento in Paesi confinanti con i propri Paesi di origine e tra i primi 10 paesi di destinazione, nel 2018 compare un solo paese europeo: la Germania.
La Turchia continua ad ospitare la maggioranza dei profughi siriani, seguita da alcuni Paesi del Medio Oriente e del Nord Africa quali Libano, Giordania, Iraq ed Egitto. Per quanto riguarda i Paesi europei, il maggior numero di profughi siriani è ospitato in Germania, seguita da Svezia, Sudan, Austria, Paesi Bassi, Grecia e Danimarca. Il Sud-Sudan si attesta invece al terzo posto per numero di rifugiati, accolti prevalentemente in Sudan, Etiopia, Kenya, e Repubblica Democratica del Congo.
Di particolare rilievo l’aumento delle richieste di asilo presentate da persone in fuga dalla Repubblica Bolivariana del Venezuela, che rappresentano la seconda tra le popolazioni più numerose di cui si compongono i nuovi flussi internazionali.
È proprio quest’ultimo Paese a preoccupare l’UNHCR, che dedica al Venezuela un focus specifico. I venezuelani, si legge, lasciano il proprio Stato per motivi diversi che vanno dalla carenza di cibo e alla difficoltà di accesso ai servizi di base, dalla violenza diffusa e al senso generale di insicurezza e paura di poter essere presi di mira a causa delle proprie opinioni politiche. Si tratta, per l’UNCHR, del più grande esodo a livello regionale e di una delle più grandi crisi a livello globale, tenuto conto che nonostante i numeri relativamente bassi di richiedenti asilo riconosciuti, persistono le situazioni di irregolarità che si traducono in sfruttamenti e abusi.
Per far fronte a questa emergenza globale l’UNHCR garantisce assistenza vitale sul campo ed organizzativa in caso di rimpatrio volontario, adesione ai programmi di reinsediamento in Paesi terzi, o ad altre soluzioni “sicure, volontarie e dignitose” di spostamento dal proprio Paese di origine, che spesso ad esempio implica il supporto in strategie di integrazione nel territorio di immigrazione.
Eppure, su un numero stimato di circa 1,4 milioni di rifugiati in necessità di reinsediamento, lo scorso anno sono stati messi a disposizione solamente 81.300 posti da parte di 29 Stati. Allo stesso modo risultano poche, e persino in misura minore rispetto al 2017, le acquisizioni di cittadinanza per naturalizzazione, quale esito di un riuscito percorso di inclusione sociale. Per questo motivo, risulta essenzaiale l’attività di advocacy condotta dall’Alto Commissariato nei confronti delle classi politiche dei Paesi di origine, tanto quanto dei Paesi di asilo, svolta innanzitutto a favorire protezione e standard di accoglienza adeguati.
Agire per offrire soluzioni concrete ai rifugiati, lo ribadiamo, implica un impegno collettivo.