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Dopo più di tre anni di attività, la nostra Galleria degli orrori si è purtroppo arricchita di molti materiali. Abbiamo quindi pensato che fosse indispensabile commentarli: lo abbiamo chiesto a Guido Caldiron, uno dei principali studiosi italiani delle nuove destre. Ecco il suo viaggio all’interno della galleria e un’analisi in prospettiva storica della simbologia e dei principali “temi” che caratterizzano l’iconografia dei materiali raccolti.
Buona lettura.
Guido Caldiron
Il lungo viaggio del razzismo
La prima cosa che salta agli occhi nello scorrere la galleria degli orrori composta in questo sito a partire dalle tracce lasciate un po’ ovunque in Italia dalla propaganda razzista e dalle campagne politiche condotte in particolare contro gli immigrati, è il carattere decisamente maniacale, ossessivo, paranoico che contraddistingue un buon numero dei materiali repertoriati, accumunati dal considerare l’immigrazione alla stregua di una “invasione” di massa o di una “occupazione” militare, o le due cose allo stesso tempo. Un’affermazione, questa, che non deve essere confusa con una generica valutazione di carattere psicologico, perché rappresenta invece il tassello iniziale del tentativo di cogliere gli elementi di continuità, o eventualmente di discontinuità, che questi stessi materiali – manifesti, volantini, striscioni, adesivi, messaggi fatti circolare sui social network o in qualunque altra forma nelle nostre città – esprimono rispetto al passato e alle fasi storiche, come la prima metà del Novecento, la genesi dei fascismi in Europa o la Seconda guerra mondiale, in cui i “razzismi” hanno drammaticamente dominato la scena.
Da questo punto di vita, evocare la categoria della “paranoia” sul piano politico e culturale significa confrontare il tono, lo spirito e i contenuti dell’ampio repertorio del nuovo razzismo italiano che qui è proposto, con quanto ha consegnato alla nostra memoria storica l’età che più è stata caratterizzata dall’affermarsi su larga scala delle ideologie razziste e dalla messa in opera dei loro meccanismi di distruzione.
Infatti, come suggerisce Alessandro Pandolfi (Aavv, Le passioni della crisi, Manifestolibri, 2010), già «a partire dalla seconda metà del XIX secolo emergono le ossessioni della supremazia bianca e i deliri paranoici del razzismo moderno: dalla sociobiologia colonialista sull’incapacità delle popolazioni indigene ad assimilare l’etica e la disciplina del lavoro alle dottrine paternaliste e autoritarie sul “fardello dell’uomo bianco” chiamato a civilizzare ed educare popoli che vivono in un’interminabile infanzia sino al paradigma eugenetico della purezza razziale». In modo ancora più marcato, segnala David Bidussa ( Aavv, Paranoia e politica, Bollati Boringhieri, 2007) nella formazione dell’antisemitismo moderno questa caratteristica “paranoica” risulta determinante: «La presenza dell’ebreo nella società non solo costituisce una minaccia specifica e localizzata ma testimonia di una possibilità complessiva che occorre distruggere o sconfiggere».
Il razzismo finisce per rappresentarsi così come la denuncia di una minaccia che peserebbe sulla società o la comunità cui si intende rivolgersi. Come nota Teun A. van Dijk (Ideologie. Discorso e costruzione sociale del pregiudizio, Carocci, 2004), dalla paranoia si passa alla vittimizzazione: «Il discorso sull’immigrazione e sulle relazioni etniche è in gran parte organizzato dalla coppia binaria Noi-Loro. Ciò significa che quando gli altri tendono a essere rappresentati in termini negativi, e specialmente quando sono associati a delle minacce, il gruppo a cui (i razzisti si rivolgono) ha bisogno di essere rappresentato come vittima di una simile minaccia (…) la discriminazione non è contro gli altri, ma contro di noi».
La conseguenza è che, come in passato, suggerisce Pandolfi, «la propaganda che nutre la paranoia di fronte (…) ai flussi migratori (…) o ad altre minacce radicali vuole l’uniformità delle reazioni dei singoli, automatizza le rappresentazioni e i giudizi, produce linguaggi performativi che riducono il reale a una parola d’ordine a difesa di immaginarie prerogative identitarie». Non solo, in qualche modo la denuncia della minaccia che verrebbe dall’esterno contribuisce a definire meglio cosa si immagina, o si desidererebbe, essere all’interno. Ciò che Bidussa sintetizza nella «trasformazione del proprio avversario in elemento costituente della propria identità».
La posta in gioco. Cosa nasconde la retorica dell’identità
All’ombra della nuova retorica razzista che prima di essere aggressiva, come abbiamo già visto e vedremo anche in seguito, tende a definire l’orizzonte di un “mondo da proteggere”, emerge una precisa visione delle cose, un’idea di sé più che di coloro che si vuole osservare attraverso le lenti dell’alterità estrema o del pregiudizio. Di fronte alle immagini e agli slogan evocati nella galleria degli orrori, in larga parte frutto dell’opera di proselitismo di gruppi dell’estrema destra neofascista o della nuova destra localista e identitaria, varrà così la pena interrogarsi sul peso che queste posizioni, a stento definibili come “idee”, hanno avuto fino ad oggi rispetto alla culture politiche più diffuse. Una prima risposta in tal senso viene da un gruppo di storici europei autori di un vasto Dizionario dei fascismi (Milza, Bernstein, Tranfaglia, Mantelli, Bompiani, 2002) che spiegano come «non necessariamente movimenti e culture d’ispirazione razzista e antisemita sono fascisti. Viceversa, appare sostanzialmente indiscutibile che il fascismo (i fascismi) sia stato portatore di istanze di natura razzista (e, prima o poi, apertamente antisemita), sia per la sua concezione organicistica della società, sia per la forte sottolineatura di una identità nazionale concepita come monocratica e onnicomprensiva, e per ciò stesso esclusiva e intollerante verso qualsiasi appartenenza e identità multipla, sia per la dimensione della politica estera, vista come scontro selettivo per gli Stati-nazione».
Per le culture fasciste, apparse in Europa dopo la Prima guerra mondiale, il razzismo, anche se preesistente in diverse forme culturali e politiche come quelle che avevano accompagnato lo sviluppo del colonialismo, diventerà un tema centrale: la stessa idea di “modernità” immaginata da questi movimenti, a partire dalla Germania hitleriana, passerà indissolubilmente per tale elemento. «L’intero Stato nazista – spiega Walter Laqueur (Dizionario dell’Olocausto, Einaudi, 2004) – si sarebbe edificato su una completa identificazione tra razza e nazione, tra biologia e cultura, vale a dire sulla centralità della “razza ariana” e sulla volontà di “separare” prima e di eliminare poi tutti coloro che erano considerati come una minaccia per “la purezza razziale” del Terzo Reich».
Ma come si è giunti da questa formulazione del pregiudizio e dell’odio razziale all’odierna definizione di “identità” che andrebbero preservate da ogni “incrocio” o “contaminazione”? Come sottolinea Michel Wieviorka (Lo spazio del razzismo, il Saggiatore, 1993), «il riconoscimento della diversità delle culture, di per sé, non porta ad alcun pericolo; è quando ciò lascia il posto all’affermazione della loro ineguaglianza che nasce il razzismo, indissociabile dal sentimento di una superiorità basata su rapporti di potere». E’ per questa via che il razzismo ha rappresentato in passato «uno strumento di biologizzazione del pensiero sociale». Vale a dire che ha trasformato le differenze culturali in altrettante caratteristiche “razziali”, che ha poi, di volta in volta descritto attraverso una sorta di gerarchia, tra razze “superiori” e “inferiori”, o invocando la necessità di separare le prime dalle seconde o di eliminare queste ultime.
Ebbene, negli anni che ci separano dalla fine della Seconda guerra mondiale, il razzismo delle destre ha sostanzialmente svolto a ritroso il cammino che dalla “cultura” aveva condotto all’individuazione delle “razze”. Secondo George Fredrickson (Breve storia del razzismo, Donzelli, 2005), «quello che è stato definito come “il nuovo razzismo” è un modo di vagliare le differenze considerando parametro essenziale di valutazione la cultura invece che il patrimonio genetico o, in altre parole, facendo compiere alla cultura il lavoro della razza». Così ad esempio, già prima del nostro paese, i maggiori ex imperi coloniali europei hanno assistito allo sviluppo di forme di razzismo del tutto simili a quelle oggi evidenti anche in Italia. «L’arrivo in Inghilterra e in Francia di masse di immigranti dalle ex colonie ha incoraggiato l’uso del termine “cultura” come un modo per distinguere i nuovi venuti sgraditi da quelli genuinamente “britannici” o “francesi”. Così, ad esempio, in Gran Bretagna colore della pelle e cultura rimangono strettamente collegati e viene generalmente ritenuto che gli stili di vita siano immutabili come la pigmentazione della pelle».
Il differenzialismo contro l’incubo del meticciato
L’enfasi posta sull’irriducibilità delle culture, sulla tutela delle identità, sul rischio che possano essere cancellate “le specificità” di ciascuno non deve trarre in inganno: come già evidenziato, il nuovo razzismo parla di “culture” come un tempo parlava di “razze”. Il vero nodo resta, come un tempo, quello di evitare con ogni mezzo il pericolo che si teme di più: il meticciato, l’incrocio, la contaminazione. E per fare questo, dopo che, in maniera più attenuata i crimini del colonialismo e in modo molto più netto l’eredità dell’Olocausto sono entrati a far parte in modo determinante dell’orizzonte culturale contemporaneo, rendendo sostanzialmente impossibile la riproposizione almeno in termini espliciti delle tesi del razzismo biologico o di quelle che postulavano una presunta “superiorità” di una “razza” sull’altra, si è cercato di trasformare la difesa ad oltranza delle “differenze” culturali nella nuova trincea del vecchio razzismo.
Si tratta di un percorso intrapreso progressivamente dall’estrema destra nei decenni del secondo dopoguerra e che oggi fa sentire le propria eco sia presso i nuovi movimenti politici populisti, come la Lega nel nostro paese, che presso le formazioni che si rifanno alla storia del neofascismo, come Forza Nuova e Casa Pound. Già alla fine degli anni Settanta, in Visto da destra, (Akropolis, 1981) Alain de Benoist, capofila della corrente internazionale della “nouvelle droite”, sintetizzava così il profilo di questo nuovo “razzismo differenzialista”: «Qual è oggi la minaccia principale? E’ la cancellazione progressiva della diversità del mondo. Il livellamento delle persone, la riduzione di tutte le culture a un’unica “civiltà mondiale”. (…) Eppure cosa c’è di più bello di vedere dei modi di vita diversi ancora radicati, veder vivere in base al proprio ritmo dei popoli differenti, di un diverso colore della pelle, di un’altra cultura, di un’altra mentalità? Credo che questa differenza rappresenti la ricchezza del mondo e che l’egualitarismo la stia uccidendo. Per questo è importante incoraggiare ovunque il desiderio di affermare una personalità diversa da tutte le altre, difendere un’eredità (culturale), governarsi da soli, secondo ciò che si è».
La denuncia del rischio di una contaminazione tra le “razze”, che aveva alimentato il razzismo di un tempo, viene così sostituita da quella, analoga per chi la afferma, del pericolo che sarebbe rappresentato attualmente dall’omologazione tra “culture”. «Si può dire – spiega Giulia Amaducci (L’ascesa del Fronte Nazionale, Anabasi, 1994) che la teoria biologica si è cancellata a profitto di quella che potremmo chiamare una culturalizzazione (le culture si sono trasformate in nature seconde), e nello stesso tempo l’assioma dell’ineguaglianza razziale ha lasciato il posto alla nuova realtà che è la differenza interculturale».
Si arriva così a quella che Pierre-André Taguieff (La forza del pregiudizio, Il Mulino, 1994) definisce come una vera «sacralizzazione della differenza» che procede verso una prospettiva «fondamentalmente antiuniversalista». Il “differenzialismo” arriva cioè a mettere in discussione i fondamenti stessi della democrazia, definendo la cittadinanza solo in base all’appartenenza ad una specifica cultura. Come ha spiegato Bruno Luverà (Il dottor H, Einaudi, 2000), «una volta assolutizzata la tutela del diverso, la difesa della sostanza identitaria di una comunità, di un popolo, si ribalta nella marginalizzazione e nell’esclusione dell’“altro”. Il “razzismo del rispetto” favorisce la diffusione del principio del “ciascuno a casa sua”».
Con la scusa della sicurezza. Razzismo e ordine pubblico
Una delle prime forme assunte dalle nuove retoriche razziste nel nostro paese ha avuto direttamente a che fare – in stretto rapporto con la paranoia dell’“invasione” di cui si è già parlato -, con l’idea di uno spazio sicuro che subisce la minaccia da parte di indesiderate presenze esterne. Per lungo tempo, e ancora oggi, è stato il tema dell’“insicurezza”ad essere utilizzato per denunciare il pericolo che sarebbe rappresentato dalla presenza di migranti o rom descritti esplicitamente come una minaccia per l’ordine pubblico e la sicurezza del resto dei cittadini.
In realtà non si tratta di un fenomeno davvero nuovo, dato che «la persecuzione degli stranieri, interni (eretici, streghe e devianti di ogni tipo) o esterni (ebrei e zingari) è un fenomeno ricorrente della storia europea», ricorda Alessandro Dal Lago (Non-persone, Feltrinelli, 1999). Un fenomeno che ha costituito le basi del razzismo moderno, passando attraverso il colonialismo prima e il progetto del genocidio ebraico poi, e che si è sempre nutrito di una disumanizzazione del proprio nemico, descritto per la sua presunta brutalità e violenza. «Ogni discriminazione o persecuzione degli stranieri, interni o esterni, viene tradizionalmente attuata mediante il ricorso a meccanismi di vittimizzazione dell’aggressore e colpevolizzazione delle vittime. Gli aggressori sono solitamente “vittime” di torti da raddrizzare o cittadini deboli o abbandonati dalle istituzioni che si coalizzano per fare giustizia, mentre gli aggrediti o i discriminati sono corpi estranei, invasori, corruttori o comunque nemici della società indifesa».
Nella società italiana, parte di un mondo sempre più globalizzato e attraversato da correnti migratorie internazionali, il razzismo che parla “in nome della sicurezza” rielabora vecchi stereotipi razziali, su tutti quello della donna bianca minacciata dal “nero” che caratterizzava già l’immaginario coloniale e quello del regime fascista, ma opera anche nuove sintesi, frutto delle mutate condizioni sociali e culturali del paese. Così, come notato da Laura Balbo e Luigi Manconi (Razzismi. Un vocabolario, Feltrinelli, 1993), in questo caso si assiste ad una «sovrapposizione tra una differenza (somatica, etnica, culturale) e un fattore di allarme sociale»: «La minaccia sociale può essere reale, o comunque, può essere avvertita come tale da strati di popolazione: in essi, oltre alla sensazione di un pericolo incombente, si manifesta il bisogno di identificarne la fonte – il responsabile – in qualcuno esterno alla comunità».
Il nuovo razzismo cresce inoltre nel clima di un mondo che sembra superare le proprie frontiere tradizionali. Ed è in questo contesto, sottolinea ancora Dal Lago, che «i migranti sono un nemico pubblico ideale per ogni tipo di rivendicazione di “identità”, nazionale, locale o settoriale. Per il patriottismo urbano o di quartiere sono criminali che minacciano la sicurezza della vita quotidiana. Per il patriottismo regionale o cantonale, alieni che intorbidano la purezza etnica. Per quello nazionale, stranieri che minano la compattezza della società».
L’allarme sicurezza diventa infatti il tema ricorrente della nuova propaganda razzista proprio mentre ci si avvicina alla stagione della crisi. Come spiega Annamaria Rivera, (Regole e roghi, Dedalo, 2009) «le campagne xenofobiche (…) vengono usate per scaricare sul capro espiatorio di turno la responsabilità di mali sociali che hanno ben altre origini e radici». E tra i loro obiettivi privilegiati, in termini di difesa della “comunità” dai presunti pericoli esterni che la minaccerebbero, domina lo spettro della “zingaropoli”. Infatti, aggiunge Rivera, «gli zingari rappresentano il capro espiatorio ideale: reputati incompatibili con la società maggioritaria, in più orgogliosamente gelosi della propria diversità, si prestano bene ad attirare su di sé la paura e il rifiuto del diverso che serpeggiano nella nostra società».
Con la scusa della crisi. Preferenza nazionale e razzismo
Negli ultimi decenni, e in maniera ancora più evidente nell’ultimo periodo a causa dei pesanti effetti che la crisi economica internazionale sta producendo anche nel nostro paese, le retoriche e la propaganda delle destre si sono spesso caratterizzate per i loro riferimenti alle condizioni di vita dei settori più deboli della società e a temi “sociali” come il lavoro e la disoccupazione, la casa e la scarsità di alloggi a prezzi contenuti, l’accesso ai servizi del welfare. Tutti questi argomenti sono però stati letti in chiave razzista, spiegando come non siano tanto la crisi economica, la speculazione immobiliare o i forti tagli subiti negli anni, in base a precise scelte politiche, da molti servizi sociali, ad aver reso più difficili le condizioni di vita della popolazione, bensì la presenza di temibili concorrenti “stranieri”. “Non c’è più lavoro per tutti”, “gli immigrati ci rubano il lavoro” o “i rom nella case popolari al posto degli italiani”, sono alcuni degli slogan demagogici e basati su alcune evidenti falsità che sono riecheggiati in ogni angolo del paese, come testimoniano molte delle immagini raccolte nella galleria degli orrori ospitata da questo sito, riproponendo negli anni della crisi economica globalizzata la ricerca di un capro espiatorio che aveva già caratterizzato in Europa l’epoca successiva al crollo delle Borse del 1929, quando i nazisti sostenevano, come ricorda Philippe Burrin (L’antisemitismo nazista, Bollati Boringhieri, 2004) che per dare un lavoro ai disoccupati tedeschi “ariani”, sarebbe bastato cacciare alcuni milioni di ebrei tedeschi.
Come si è già visto, sul piano generale estreme destre e populisti propongono che si chiudano le frontiere all’immigrazione e che gli “stranieri siano rimandati a casa”, ma la proposta che più caratterizza il vocabolario del nuovo razzismo, anche nel nostro paese, riguarda la possibilità che l’accesso ai servizi pubblici, all’assistenza sociale, agli alloggi o al lavoro sia regolato da una “preferenza nazionale”, vale a dire da un diritto di prelazione riservato a chi possa vantare la propria “italianità” o, nel caso della Lega, la propria appartenenza alla “patria immaginata” della Padania.
Anche in questo caso non si tratta di un’invenzione recente, dato che già le leggi razziali varate contro gli ebrei in Italia e Germania negli anni Trenta introducevano delle discriminazioni anche sul terreno del lavoro, al pari di quanto accadeva nel regime sudafricano dell’Apartheid nei confronti della popolazione africana o negli Stati del Sud degli Usa verso gli afroamericani. L’adozione dello slogan della “preferenza nazionale” come architrave del tentativo di trasformazione in senso razzista della “questione sociale”, si deve però, più di recente, al Front National francese, il partito che per primo in Europa, già negli anni Settanta, individuò nella lotta all’immigrazione il cuore di una possibile ripresa dell’estrema destra politica dopo la sconfitta subita dalle dittature fasciste nel 1945. Come descritto da Nonna Mayer e Pascal Perrineau (Le Front National à decouvert, Presses de la Fondation Nationale de Sciences Po, 1989), i razzisti francesi avevano scritto fin da allora nel loro programma che «la Francia deve cessare di attirare gli stranieri facendoli beneficiare del suo sistema sociale. Per questo gli assegni familiari, gli aiuti sociali, il salario minimo di disoccupazione, saranno versati ai soli Francesi». Non solo, negando agli immigrati la possibilità di mantenersi e di avere un alloggio, «solo l’adozione della preferenza nazionale permetterà di mettere fine all’invasione migratoria e a facilitare il ritorno nei loro paesi d’origine degli stranieri installati legalmente sul nostro suolo». In altre parole, la “preferenza nazionale” non è solo il mezzo con cui si cerca di proiettare sugli immigrati tutto il malessere che cresce nella società, ma può diventare anche lo strumento, apparentemente frutto delle necessità economiche dettate dalla crisi, con cui eliminare dal “corpo della patria” ogni traccia di “contaminazione straniera”. La stessa retorica razzista attiva in Europa tra le due guerre mondiali.
Con la scusa dell’11 settembre. Islamofobia e scontro di civiltà
Nel contesto che abbiamo descritto fin qui, e come emerge chiaramente dalla galleria dei materiali raccolti, un contributo decisivo alla formulazione di un nuovo vocabolario razzista è venuto negli ultimi decenni da quelle posizioni culturali e politiche che hanno descritto nei termini di una contrapposizione violenta e inevitabile la relazione tra il mondo occidentale e quello musulmano. Contrapposizione che è stata teorizzata e sostenuta fin dall’inizio degli anni Novanta da Samuel P. Huntington nel suo celebre libro The Clash of Civilizations (Lo scontro delle civiltà) e che è stata in qualche modo ripresa, in termini marcatamente razzisti, nel 2001 nel nostro paese da Oriana Fallaci con il pamphlet La rabbia e l’orgoglio. Inoltre, l’attacco lanciato contro New York l’11 settembre del 2001 da un gruppo di terroristi jihadisti, e che ha fatto oltre 3000 vittime, è sembrato rendere concreto questo orizzonte di “scontro tra civiltà”. Anche alla luce del valore assegnato alla cultura nella formulazione odierna del pregiudizio razziale, le retoriche anti-immigrati hanno così assunto spesso un nuovo profilo, quello della difesa della “civiltà occidentale” dalla “minaccia islamica”, minaccia evocata sia nei termini del pericolo terrorista, che di una “occupazione islamica di terre cristiane” o anche di una possibile limitazione delle libertà personali, prendendo spunto da quanto accaduto durante il regime dei Talebani in Afghanistan. Sempre più spesso, come dimostrano molti dei manifesti raccolti, la figura dell’immigrato, tradizionale oggetto della propaganda razzista, si è così trasformata tout court in quella dell’“islamico”. Una specifica forma di razzismo definita dagli studiosi come “islamofobia”.
In particolare dopo l’11 settembre, ha spiegato Monica Massari (Islamofobia, Laterza, 2006), «il sentimento di minaccia associato all’islam ha portato al rafforzamento e all’incoraggiamento di politiche di identità orientate a dotare di dignità sociale sentimenti collettivi quali il risentimento, l’odio verso l’altro, il senso di superiorità e la volontà di dominio nei suoi confronti». Secondo questa stessa analisi, per la prima volta, «dopo la storia drammatica dell’antisemitismo nel corso del Novecento, vediamo dunque riemergere la tendenza diffusa a operare una confusione tra religione, cultura, società, politica». Non solo, proprio nell’islamofobia sembrano riemergere le diverse forme conosciute dal razzismo nel lungo viaggio compiuto fino ad oggi. Da un lato, «il razzismo biologico, quello coloniale che giustifica lo sfruttamento dell’altro con la presunta inferiorità naturale di certe “razze”», dall’altro «quella forma del razzismo nazista condensata nell’antisemitismo che tende ad allontanare, eliminare l’altro come “impuro”, diverso e incompatibile con la propria superiorità; la razza in questo senso siamo noi: ieri il “mito ariano”, oggi la civiltà occidentale celebrata come indiscutibilmente unica e superiore».
Oltre il razzismo diffuso, l’ideologia della guerra razziale
Se negli ultimi decenni il vocabolario del razzismo è tornato a caratterizzare pericolosamente il dibattito pubblico del nostro paese e ha offerto nuove chance agli imprenditori politici dell’odio, dalla galleria di materiali offerta da questo sito emerge come all’ombra di questo fenomeno abbiano poi trovato nuova diffusione anche le tesi ideologiche più radicali delle correnti neofasciste e neonaziste internazionali. Perlomeno dalla metà degli anni Novanta, il radicalismo di destra è tornato ad attingere anche in modo esplicito al vocabolario e all’iconografia del Ventennio mussoliniano quando non della Germania nazista, mentre un’ampia sottocultura estremista, razzista e antisemita è cresciuta in molte curve del calcio come presso alcune comunità giovanili legate allo stile, alla musica e all’abbigliamento. In questo contesto, la scena nazionale ha assunto e fatto propri anche alcuni elementi già emersi in altri paesi e caratterizzati da un orizzonte che si potrebbe dire dominato dall’idea dell’ineluttabilità di una guerra razziale.
Due esempi possono illustrare questa condizione. Il primo riguarda la diffusione negli ambienti del neofascismo italiano di un romanzo, Il campo dei Santi, pubblicato per la prima volta in Francia nel 1973 – ed uscito nel nostro paese per i tipi delle Edizioni di Ar di Franco Freda, già dirigente di Ordine Nuovo, più volte processato per la strage di Piazza Fontana del 12 dicembre del 1969 – da Jean Raspail, uno scrittore e viaggiatore spesso avvicinato dalla stampa francese al Front National. Nel libro, ispirato ad un brano dell’Apocalisse di Giovanni, della Bibbia, si descrive la fine del predominio dei “bianchi” in Europa come negli Stati Uniti, e la resistenza, in armi, opposta da un gruppo di irriducibili oppositori al «nuovo ordine multirazziale» che si sta instaurando grazie all’immigrazione di massa, ad una Chiesa imbevuta di terzomondismo, al sostegno degli intellettuali radical-chic e nell’inerzia di un’opinione pubblica che vive nel rimorso del colonialismo. Pur rientrando in alcune sue parti nell’istigazione all’odio razziale punita dalla Legge Gayssot, il libro è sfuggito ad ogni intervento giudiziario perché quella norma è stata emanata solo nel 1990 e non ha carattere retroattivo.
Il secondo elemento che indica questa radicalizzazione è costituito dall’“adozione” da parte del circuito neofascista giovanile dello slogan delle cosiddette “14 words” (14 parole), simbolo del suprematismo bianco degli Stati Uniti. La frase «Dobbiamo assicurare l’esistenza del nostro popolo e un futuro per i bambini bianchi», fu infatti coniata da David Lane, uno degli aderenti al gruppo terroristico neonazista The Order, condannato a una pena complessiva di centonovanta anni e morto nel 2007 in un carcere del Kansas. Ispirandosi ai Cavalieri teutonici, ma anche alle Ss, nei primi anni Ottanta i membri di questo gruppo, qualche decina di persone in tutto, dichiararono guerra alle autorità federali di Washington, che consideravano dominate da ciò che avevano ribattezzato come Zog (Governo di occupazione sionista) e si lanciarono in una campagna di rapine, attentati e omicidi che avrebbero dovuto favorire, secondo i loro intenti, lo scoppio di una “rivoluzione bianca” e di una guerra razziale nel paese. Gli ultimi detenuti dell’organizzazione, alimentano ancora oggi il mito dell’esercito ariano in lotta per la difesa della razza sui siti della destra radicale di tutto il mondo che li presenta non a caso come dei “Prisoner of War” (Prigionieri di guerra).