Dopo le anteprime del 30 e 31 gennaio, il film documentario “Fuori Campo” comincia a girare l’Italia. Fuori Campo è un esperimento di “co-ricerca” di un gruppo di documentaristi, giuristi, antropologi, attivisti rom e non rom, che racconta “l’altra realtà” dei rom in Italia – quella di cui i giornali non parlano e di cui la politica non si occupa –, raccogliendo storie di vita di donne e uomini rom che non hanno mai vissuto in un campo o hanno scelto di uscirne. Il regista Sergio Panariello, supportato da attivisti rom residenti in diverse città italiane (Bolzano, Rovigo, Firenze, Cosenza), ha realizzato il documentario, che sarà proiettato in diverse città: nelle scuole, e durante festival cinematografici ed eventi organizzati da associazioni locali. Fuori Campo è prodotto da Figli del Bronx con le associazioni OsservAzione e Compare/Mammut, realtà impegnate da anni sul tema dei diritti di rom e sinti in Italia.
A questo proposito, vi segnaliamo l’articolo di Sergio Bontempelli, uscito qualche giorno fa sul Corriere delle Migrazioni.
Le storie dei rom che non abitano nei campi, ma nelle case, raccontate in un film documentario uscito in questi giorni
«Se io non dico che sono rom», dice un signore che abita a Cosenza, «nessuno se ne accorge… non è che ho scritto in fronte la parola “zingaro”…». «Io sono nato in una casa normale, nella ex Jugoslavia», incalza un rom di Firenze, «da noi non esistevano campi… poi sono venuto in Italia, a quindici anni, ed è qui che sono diventato zingaro: mi hanno fatto abitare in una roulotte, e poi in una baracca…».
Sono alcune frasi del film Fuori Campo, prodotto dal regista Sergio Panariello per conto delle associazioni OsservAzione, Figli del Bronx e Compare, con la collaborazione di Amalipé Romanò e Open Society Foundation. Una pellicola – è stato detto – che «sposta lo sguardo», assumendo la prospettiva dei rom che non abitano nei campi, e che vivono una vita “normale” all’interno di case in muratura: cioè con pareti di cemento, porte, finestre, cucine, bagni, camere da letto…
Quattro storie “normali”
Nella pellicola di Sergio Panariello si incrociano quattro storie di altrettanti rom. C’è Sead, kosovaro, arrivato in Italia ancora bambino assieme alla sua famiglia di profughi: oggi vive a Rovigo, lavora in fabbrica e fa il delegato sindacale. «Io capisco che c’è la crisi e la gente ha paura», dice ad un collega marocchino, «però spesso chi lavora non difende la propria dignità, i propri diritti… e a volte tocca a noi – a noi rom, a noi immigrati – cercare di migliorare le cose, sia per noi stessi che per gli italiani… perché in fondo in fabbrica siamo tutti lavoratori, tutti uguali».
Poi c’è Luigi, rom italiano, che vive a Cosenza e di mestiere fa il netturbino. Anche Luigi ha una casa – una casa “normale” – ma vive in un quartiere di soli rom. «Prima stavamo in un campo», racconta ad un amico, «poi hanno fatto lo sgombero, e ci hanno portato tutti qua, in questa strada: in questo modo si è formato un quartiere rom. Le abitazioni sono migliorate, questo è innegabile, ma le problematiche sono rimaste le stesse: siamo isolati, viviamo in un ghetto…».
C’è Canija, giovane ragazza macedone, che vive a Bolzano con i suoi tre figli, con il marito italiano in carcere: cerca disperatamente una casa propria per separarsi dal coniuge, ma l’impresa non è semplice. La sua storia si dipana tra la ricerca di un affitto e il tentativo di accedere ad alloggi comunali di emergenza abitativa.
Infine, c’è la vicenda dei rom di Firenze, raccontata a più voci in un conversazione da salotto: e non è un modo di dire, perché tutta la storia si dipana attraverso la narrazione di quattro attivisti rom, condotta nel divano di una casa. Ed è una storia lunga e complessa: di Comuni che promuovono progetti di integrazione abitativa, dei primi successi, poi del cambio di politiche locali e del fallimento di alcuni percorsi virtuosi. E tra i “narratori” c’è Demir Mustafa, figura storica dell’associazionismo rom in Toscana.
Un mondo “dimenticato”
Quattro biografie di rom, quattro storie “normali”: quelle di chi non vive in un “campo”, non sembra “nomade”, e perciò non si porta addosso lo stigma del pregiudizio. Perché in fondo questo significa abitare in container, baracche, tende, roulotte, in insediamenti precari ai bordi delle autostrade: apparire diverso, e quindi – spesso – essere bersaglio di stereotipi.
Ma quanti sono i rom e i sinti che vivono in case normali? Le stime parlano di circa 170.000 persone appartenenti alla minoranza romanì: di questi, circa 40mila vivrebbero in situazioni di disagio abitativo, cioè in insediamenti più o meno autorizzati, oppure in case occupate e fatiscenti. Tutti gli altri – la stragrande maggioranza, dunque – abitano in alloggi convenzionali e in muratura: un mondo troppo spesso dimenticato, perché il senso comune associa i rom al nomadismo, e dunque alla forma-campo.
I campi: una forma di violenza
A dare il senso alle storie raccontate nel film sono le parole di Piero Colacicchi, fondatore di OsservAzione, uno dei più autorevoli studiosi di “questioni rom”, scomparso prematuramente l’estate scorsa.
«I rom stranieri che vivono in Italia», dice Colacicchi in una vecchia intervista, riportata alla fine del film di Panariello, «vengono da zone della ex Jugoslavia dove i campi non esistevano: le famiglie rom vivevano nelle case, e lavoravano regolarmente. Quindi il campo non è una risposta adeguata a una cultura particolare: è invece unanostra violenza, che imponiamo ai rom».
«Apparentemente», conclude Colacicchi, «il campo è la soluzione più semplice, e anche più economica per gli enti locali. In realtà le cose non stanno così: perché i costi di questi insediamenti sono quasi sempre altissimi. E si tratta di soldi sprecati…». Sono parole pronunciate nel lontano 1999. Che oggi, dopo le inchieste di Mafia Capitale, suonano quasi profetiche…
L’articolo è pubblicato da Corriere delle Migrazioni