Pubblichiamo qui di seguito, e vi invitiamo a leggere con molta attenzione l’articolo scritto da Stefano Lusa, apparso nel n.188 di Febbraio 2016 della rivista Lo Straniero.
Oramai è stata messa su una sgangherata agenzia di viaggio. Offre pochi confort, ci si deve adattare, ma alla fine si arriva in Germania e nell’Europa settentrionale abbastanza in fretta e senza spendere troppo. Per entrare nella giostra bisogna approdare in Grecia. Attraversare l’Egeo e sbarcare su una delle isole non è uno scherzo, ma poi tutto sommato diventa facile. Si fa il biglietto per arrivare sulla costa. Ci si fa identificare e si ottiene un documento che dà diritto a chiedere asilo e a muoversi liberamente per il paese. Le norme di Schengen e di Dublino sono saltate. Nessuno ti rimanda a casa, ma intanto sperano che te ne vada presto. Pochi scelgono di restare, tutti, o quasi, vogliono proseguire il loro cammino.
Tappa obbligata a Idomene a ridosso del confine macedone. Ci si arriva in autobus o in taxi. Le tariffe non sono proibitive. Bastano poche decine di euro. Ci sarebbe un bel valico autostradale, ma i profughi vengono fatti scendere in un campo a ridosso della linea verde. Li trovano un venditore di patatine, alcuni volontari e un campo alquanto attrezzato. Bisogna avere pazienza. Per arrivare in “Europa” ci sono una serie di forche caudine da superare. I macedoni farebbero volentieri a meno di avere tra i piedi i migranti. Credono di essere un paese relativamente povero. Il sogno dell’integrazione europea è lontano. C’è da superare lo scoglio greco. Atene da anni blocca l’avvio di dei negoziati con Skopje a causa di quella che viene considerata l’appropriazione indebita del nome Macedonia.
Al confine i macedoni hanno eretto un solido reticolato, adornato con abbondanti rotoli di nastro spinato (quello che si è abituati a veder nei film sulle carceri americane). Le maglie si sono progressivamente chiuse dopo gli attentati di Parigi. A quel punto Skopje ha deciso che sarebbero passati solo siriani, iracheni e afghani. Gli altri sono stati etichettati come “migranti economici”. Una chiara forzatura del diritto d’asilo: Iran, Pakistan, Egitto o Algeria, ad esempio, non possono essere considerati certo degli esempi in fatto di tutela dei diritti dell’uomo. Molti sono disposti a scommettere che la decisione sia stata suggerita ai macedoni, che non hanno fatto altro che applicarla.
Nel lungo reticolato la porta scorrevole viene aperta di quel tanto che basta per far passare uno a uno gli esuli. Funzionari di polizia macedone e greca, tra una pausa ed un’altra, controllano le carte e respingono chi non ha tutto in regola o chi tenta di fare il furbo. Quelli che non ce la fanno tornano ad Atene, nella speranza di procurarsi un documento valido o di escogitare qualche stratagemma per passare il confine. Il muro macedone non è ininterrotto e passare illegalmente non appare un’impresa improbabile. Si vocifera di altre vie attraverso l’Albania e il Kosovo. La rotta balcanica, del resto, era frequentata ben prima che tutto diventasse così organizzato e facile.
Per i macedoni il problema principale è quello di far uscire il prima possibile i migranti dal loro paese. Nei campi fa freddo. Non ci sono spazi per la notte. Dicono che provvederanno. In ogni modo i profughi non vogliono fermarsi. Da Gevgelija partono incessantemente i treni speciali alla volta di Tabanovce, al confine con la Serbia. Il biglietto non è caro, in alternativa si può prendere un taxi. Non si spende tanto neanche con quello. Ce ne sono a centinaia che aspettano. I fuggaschi partono da un campo e arrivano direttamente in un altro. Nessuno li vede se non passa di li. Oltre ai volontari, che distribuiscono cibo e vestiario, non mancano gli ambulanti che cercano di vendere le loro mercanzie.
Il passaggio in Serbia avviene attraverso una stradina di campagna. Si affronta il tragitto di giorno e in gruppi compatti. Qualcuno ha avuto qualche brutta esperienza in quella zona. Lo scenario non è molto diverso rispetto a quello macedone. L’identificazione procede veloce e a Presevo, i commercianti sembrano fare buoni affari. Sui chioschi e nei negozi oramai le scritte sono in arabo. I migranti salgono su treni, autobus e taxi per fare il lungo viaggio che li porta verso la Croazia. Lì passano veloci, ci sono altre procedure d’identificazione e un altro viaggio in treno fino in Slovenia, dove si rifanno i documenti e si riparte per l’Austria. Con lentezza, i poliziotti e militari di Vienna li fanno passare per caricarli su autobus diretti in Germania.
La rotta negli ultimi mesi è cambiata. I profughi evitano la Bulgaria. Lì il muro anti-immigrati è stato costruito già da tempo e le esperienze con la polizia non sono delle migliori. A Sofia va anche il triste primato di aver sparato e ucciso uno dei migranti al confine. La cosa agli stessi bulgari non sembra dispiacere troppo, contenti di evitarsi così un’emergenza che investe altri paesi. Anche la Croazia ha a lungo sperato di non doversi occupare della faccenda. I profughi dalla Serbia andavano direttamente in Ungheria, da dove poi proseguivano alla volta di Austria e Germania. Budapest ha gestito l’emergenza col cipiglio austroungarico di chi intende far rispettare le regole, ma anche senza compassione per gli esuli. Il paese era il primo, se si esclude la Grecia, dell’area Schengen. Non c’è voluto tanto per far erigere un vero e proprio steccato al confine con la Serbia. Molti hanno gridato allo scandalo, poi la soluzione adottata dal governo Orban ha iniziato a sembrare sempre più accettabile ed Orban è cominciato a diventare un vero e proprio modello in tutta l’Europa dell’est.
A quel punto i profughi hanno iniziato a passare per la Croazia e da lì hanno nuovamente puntato diritto verso l’Ungheria, finché Budapest non ha sigillato il confine anche lì. La decisione è stata accolta con sollievo dai cittadini ungheresi, per nulla felici di veder passare attraverso il loro paese i profughi e di doverli assistere. Serbi e croati, per contro hanno detto che loro non metteranno barriere e non ostacoleranno il passaggio di quella povera gente. Un’impensabile apertura considerato il nazionalismo che aleggia a Zagabria e a Belgrado. In ogni modo entrambi sono consapevoli che non hanno nessuna intenzione di fermarsi da loro.
A quel punto era chiaro che la rotta avrebbe puntato diritto verso la Slovenia. Il paese, suo malgrado, aveva dovuto già far passare alcune migliaia di migranti alla fine di settembre, ma aveva fatto chiaramente intendere che ne avrebbe fatto volentieri a meno e che non avrebbe fatto nulla per agevolarli. La speranza era quella di tenerli lontani e i profughi hanno iniziato a passare di lì quando proprio non hanno potuto farne a meno.
La Slovenia avrebbe voluto che dall’Europa le si dicesse che fare, ma da Bruxelles non è arrivata nessuna indicazione utile. Lubiana era stato uno dei pochi, se non l’unico, che sin da tempi non sospetti si era messo a fianco dell’Italia e della Grecia a dire che la questione immigrazione era una problema di tutta l’Unione europea e non dei singoli paesi investiti dall’emergenza. In ogni modo si è dato subito a intendere che Lubiana sarebbe stata un arcigno custode del confine di Scheghen e che diligentemente si sarebbero fatte rispettare le procedure previste. Per mentalità era impensabile che gli sloveni applicassero le soluzioni creative dei greci o dei croati.
A Zagabria si era detto subito che non se ne sarebbero presi più di 2500 al giorno, mentre dalla Serbia gli arrivi erano molto più consistenti. Così, quando gli sloveni hanno cercato di chiudere la porta, i croati si sono limitati a scaricare i profughi a ridosso del confine. Di fronte alle proteste di Lubiana dalla Croazia hanno risposto che non dovevano far altro che portarli il più velocemente possibile al confine austriaco e che se non ci riuscivano ci potevano pensare direttamente loro.
Il caos dei gironi successivi è stato gestito dalla Slovenia come una questione di ordine pubblico e non come una catastrofe umanitaria. Migliaia di profughi infreddoliti, bagnati fino al midollo, guardati a vista dai reparti speciali e dalla polizia a cavallo, sono stati costretti a bivaccare per ore o ore nei campi a ridosso della frontiera. Poi vecchi, donne e bambini compresi sono stati costretti a marciare sino ai centri per l’identificazione. A quel punto Lubiana non c’ha messo molto a mettere al confine con la Croazia rotoli di nastro spinato, anche se l’emergenza era passata da un pezzo, convinta che di Zagabria non ci si doveva e poteva fidare. La porta Slovena per ora resta aperta, anche se Lubiana non nasconde che potrebbe chiudersi non appena arrivasse qualche segnale dalla Germania. Quello che appare chiarissimo è che i paesi sulla rotta balcanica non hanno nessuna intenzione di rischiare di trovarsi con migliaia di profughi da gestire a casa loro. I tedeschi giurano che non intendono limitare l’afflusso, ma intanto gli austriaci, stanno erigendo barriere e mettendo il filo spinato al confine sloveno.
In ogni modo nei Balcani è stato aperto un corridoio umanitario informale per siriani, iracheni e afghani. Tutto corre veloce. Niente più scene di profughi accampati nei parchi delle capitali o a ridosso delle frontiere, ma campi di transito relativamente ben attrezzati e trasporti ben organizzati per arrivare alla tappa successiva. Sparita l’emergenza anche l’attenzione dei media sta scemando. Ora i migranti sono diventati invisibili, come probabilmente volevano i governi. Adesso passano in zone periferiche, lontano dagli occhi dell’opinione pubblica. Forse non è un bene per i profughi stessi.
Appare difficile comprendere perché non sia stato possibile allestire un ponte aereo che dalla Turchia o dal Libano avrebbe portato direttamente i rifugiati in Germania o in Scandinavia. Sarebbe costato di meno denaro a loro, i controlli di sicurezza avrebbero potuto essere ben più elevati, il setaccio tra coloro che avevano diritto all’asilo e gli altri avrebbe potuto essere fatto a monte, i rischi e la fatica per uomini, donne, vecchi e bambini che si sono messi in cammino sarebbero immensamente minori e infine si sarebbe evitato di mettere in piedi quella che sembra una vera e propria agenzia di viaggio, che vede impegnate ingenti forze di polizia e operatori umanitari di paesi che farebbero volentieri a meno di affrontare questa emergenza.
Sulla rotta balcanica si sono mosse centinaia di migliaia di persone. A mettersi in marcia è stata una buona fetta della classe media siriana, quella più laica e istruita. Persone con elevate competenze: professori, ingegneri, medici, grafici, desinar, imprenditori, commercianti. Gente vestita bene, con costosi orologi al polso, con telefonini dell’ultima generazione, con più di qualche dollaro in tasca e con bambini vestiti esattamente come i nostri. Hanno gli stessi giocattoli e le stesse magliette con gli eroi dei cartoni animati. Molti stavano da tempo nei campi profughi in Turchia o in Libano e se ne sono andati quando hanno capito che sarebbero stati accolti in Germania, ma anche quando è stato chiaro che il ritorno nel loro paese non sarebbe più stato possibile. La Siria, di cui loro erano stati la parte più urbanizzata e laica, oramai non esiste più e senza di loro il paese non sarà più lo stesso e farà molta fatica a ripartire. Faranno crescere il Pil della Germania e degli altri paesi nordici. Di tutto questo i paesi della rotta balcanica non vogliono o non sembrano accorgersi. Hanno fretta di farli uscire dai loro confini e non sembrano aver alcun interesse di trattenere qualche profilo che potrebbe apparire più che necessario.
In tutti questi mesi l’afflusso di migranti è stato visto come una vera e propria minaccia per la nuova Europa. I suoi governanti non hanno fatto mistero di non avere le capacità economiche e le necessità demografiche per assorbirli. Forti del consenso di una fetta consistente dell’opinione dicono di non volerli. Sono società etnicamente omogenee quelle dell’est. La diversità fa paura, non sono terra di immigrazione e non vogliono nemmeno diventarlo. L’Ungheria e gli altri paesi orientali sembrano chiedere a gran voce di diventare il nuovo antemurale della cristianità. Vogliono difendere se stessi e la loro idea di Europa dai migranti, ma anche dal multiculturalismo occidentale, percepito come fallimentare e pericoloso. Il muro tra l’est e l’ovest dell’Europa non è sembrato mai così alto dal crollo del comunismo.