Conversazione con Lorenzo Guadagnucci
Un mese fa abbiamo pubblicato una conversazione svolta con Giuseppe Faso, disponibile qui.
Un tentativo per riflettere a fondo e collettivamente su quanto abbiamo fatto sino ad oggi e su come sia possibile rilanciare una battaglia efficace per l’eguaglianza e contro ogni forma di razzismo. Lorenzo Guadagnucci, giornalista professionista, fondatore del sito Giornalisti contro il razzismo, autori di vari libri tra i quali Noi della Diaz pubblicato nel 2002, e, con Vittorio Agnoletto, L’eclisse della democrazia. Le verità nascoste sul G8 2001 a Genova, uscito nel 2011, ci aiuta qui a proseguire il ragionamento.
Che cosa sta succedendo? Come siamo arrivati sin qui?
Difficile dire in poche parole, ma all’origine potrebbe esserci il declino di civiltà e democrazia connesso con l’affermazione del “pensiero unico” neoliberale. I primi campanelli d’allarme rilsalgono agli anni Novanta – la ribellione neozapatista, 1994; la rivolta di Seattle, 1999 – e il movimento globale per la giustizia ha provato a farne tesoro (il primo Forum sociale mondiale di Porto Alegre è del 2001, come la mobilitazione contro il G8 di Genova), ma la sua visione, la sua cultura, le sue proposte sono state messe ai margini, se non soffocate, e il peggio ha avuto il sopravvento: dittatura della finanza, disuguaglianze crescenti, democrazia limitata attraverso accordi commerciali e finanziari globali nonché privatizzazioni generalizzate. Quest’indirizzo è stato accompagnato da una forte discriminazione per i movimenti delle persone dal Sud al Nord del mondo, movimenti sgraditi da chi piuttosto favoriva politiche di delocalizzazione e neoschiavismo esterno e interno. L’erosione delle democrazie e di certe regole di civiltà è stata progressiva, acuita dalla crisi finanziaria e produttiva che ha investito l’occidente nell’ultimo decennio. E ora eccoci qua, alle prese con un’impennata di violenza diffusa e istituzionale che corrisponde alla ricerca di nuovi equilibri politici, con un neonazionalismo insofferente per certe regole e certe strettoie del governo globale dell’economia. E’ un neonazionalismo pronto a sfruttare le debolezze delle istituzioni democratiche nonché la rabbia e la frustrazione diffuse tanto fra la gente comune quanto in buona parte dei ceti dirigenti. Potremmo dunque essere di fronte a una trasformazione legata a una crisi di sistema.
Se i risultati sono questi, forse anche la società civile ha sbagliato qualcosa. Dove stanno i nostri errori e come possono essere superati?
Abbiamo certamente accumulato sconfitte e compiuto l’errore di arretrare rispetto a una conquista maturata con la nascita del Forum sociale mondiale, ossia la capacità di fare rete su scala globale e di impostare un lavoro politico di lungo periodo, imperniato sullo studio, il confronto, la sperimentazione. Finché ci siamo sentiti parte di un progetto politico comune, per quanto articolato e a maglie larghe, è stato possibile collaborare, migliorarsi, agire con convinzione e senso di autostima. Quando è arrivato – sottotraccia – lo sciogliete le righe, ciascuno ha perso forza e convinzione e quindi capacità di incidere nella società e di persuadere che altre vie sono possibili, rispetto a quelle proposte come uniche e inevitabili dal potere.
Se questo è vero, la via d’uscita passa attraverso un doppio binario: da un lato la ricostruzione di un tessuto politico globale, recuperando e sviluppando la capacità di fare rete; dall’altro lato, la politicizzazione della propria azione, che non può essere mero intervento sociale e d’emergenza, se non sacrificando – appunto – l’altro elemento del binomio.
Le forze di opposizione sembrano inermi e incapaci di fermare la retorica leghista. La società civile tenta di reagire, ma è ancora molto frammentata. Nei fatti quella parte di popolazione italiana che non condivide le scelte del governo stenta a trovare un punto di riferimento. Da dove e come ripartire?
Il punto di riferimento non c’è e va costruito, vista la bancarotta delle forze politiche progressiste e di sinistra. Chi oggi è attivo nella lotta per i diritti di chi si sposta verso l’Europa e contro razzismo e xenofobia dovrebbe assumersi il compito di costruire un polo di studio, di proposta e di azione percepibile dal grande pubblico. Sembra incredibile, ma al momento non è in campo una proposta di politiche dell’immigrazione alternativa a quelle attuate dal governo Gentiloni-Minniti prima e dal Conte-Salvini poi. In particolare, poche voci negli ultimi mesi sono riuscite a farsi sentire nella canea della “emergenza immigrazione” e del “prima gli italiani”, ma sono state grida effimere (Mario Balotelli, papa Francesco, Roberto Saviano in momenti e occasioni diverse) e subito sospinte ai margini del discorso pubblico.
Serve un “programma di governo” alternativo, sul modello di quanto si fa con Sbilanciamoci!, campagna che redige una proposta di legge finanziaria alternativa a quella del governo, perfettamente credibile e praticabile, ma con contenuti politici assai diversi. Si potrebbe ripetere la stessa esperienza in materia di immigrazione e mettere nero su bianco un manifesto programmatico per punti, a partire dalle conoscenze e dalle esperienze già acquisite: corridoi umanitari sistematici per chi fugge dalle guerre; permessi di ingresso per ricerca di lavoro in modo da stroncare il business degli scafisti; legge sullo ius soli; dirottamento delle risorse dal controllo delle frontiere all’accoglienza e formazione di chi arriva, eccetera. Se questo manifesto esistesse e fosse sottoscritto da chi già ora è attivo, avremmo il punto di riferimento che manca e i corrispondenti portavoce in grado di fronteggiare la propaganda mediatica e di governo. Su questo fronte, non c’è davvero tempo da perdere.
Chi non condivide la disumanità delle politiche del rifiuto vorrebbe trovare un modo per agire in modo concreto la solidarietà. Le manifestazioni di piazza non sono riuscite a mobilitare negli ultimi tempi molte persone. Quali altre iniziative possono essere messe in campo?
Sul piano della solidarietà attiva le opzioni non mancano, dal tutoraggio previsto dall’apposita recente legge alla possibilità d’essere parte della rete di associazioni attive sul campo. Non credo che sia questo il punto più debole e carente. Altro discorso riguarda le manifestazioni, ma è difficile aspettarsi grandi risposte popolari in assenza di un progetto politico riconoscibile.
L’autoreferenzialità e l’eccessiva frammentazione della società civile va a vantaggio del potere. Siamo destinati ad accettarla o possiamo fare qualcosa?
Possiamo fare moltissimo, come detto prima: la priorità è il recupero della propria capacità di fare rete. E’ anche necessario politicizzare il proprio lavoro, nel senso detto prima. La frammentazione è il frutto delle sconfitte passate e in qualche modo, dunque, comprensibile; oggi è necessario compiere uno scatto in avanti, superando la stanchezza e le diffidenze accumulate. Un altro elemento va però messo a fuoco e cioè la necessità di allargare il quadro di riferimento. Le politiche disumane e liberticide in materia di immigrazione sono al momento contestate e contrastate dagli “specialisti”, cioè le Ong impegnate nel Mediterraneo, le reti antirazziste, le associazioni impegnate nell’accoglienza. Queste organizzazioni sono le prime chiamate a fare rete, ma la politicizzazione del discorso implica un’estensione del campo di gioco: siamo di fronte a un’emergenza democratica tout court e ciascuno è chiamato a fare la sua parte, mettendo in circolazione tutte le risorse morali, materiali e anche storiche disponibili, a cominciare dall’eredità dell’antifascismo, oggi sotto attacco e anche questa lasciata colpevolmente in custodia agli “specialisti”.
Cosa metteresti in agenda, al di là delle azioni e delle campagne simboliche, per tentare di invertire la rotta e per proteggere meglio i migranti, i richiedenti asilo e i rifugiati che sono nel nostro paese o che vorrebbero arrivarci? Su quali dimensioni e verso quali interlocutori dovrebbe articolarsi una strategia efficace e di lungo respiro?
Basta l’impegno antirazzista per combattere in modo efficace il razzismo?
Al primo posto il Manifesto-programma di cui dicevo prima, poi un’azione corale, importante, impegnativa, per renderlo visibile: ad esempio una grande Marcia attraverso il paese, organizzata come si deve e come non si è mai fatto. I partner possibili sono molteplici: dalla Chiesa cattolica al mondo intellettuale (grande assente finora), dal sindacato (che non può limitarsi a quanto fatto finora contro lo schiavismo interno, per dire) alle innumerevoli forme della società civile democratica. Donatella Di Cesare ci ha spiegato che le attuali politiche dell’immigrazione contrappongono diritti di cittadinanza e diritti umani, sacrificando i secondi a vantaggio dei primi, riservati naturalmente a chi è già qui e ai pochi che in futuro saranno ammessi a godere del privilegio. Al fondo di tutto c’è dunque un problema di democrazia sostanziale, una questione di civiltà che non è stata ancora compresa in tutta la sua portata.
Di fronte alla enorme asimmetria di potere e di risorse, cercare di riorientare il dibattito pubblico con contronarrazioni, attività di decostruzione delle false notizie, fact-cheking richiede molto lavoro e grandi energie con un impatto limitato, per lo più confinato nella parte dell’opinione pubblica già sensibile ai diritti umani. E’ possibile secondo te sfondare questa bolla informativa e riuscire a diffondere messaggi di eguaglianza, solidarietà e lotta contro le discriminazioni raggiungendo chi non la pensa già come noi? E come?
Nell’attuale sistema di comunicazione, a causa degli equilibri politici esistenti, un messaggio del genere fatica ad emergere: è anche per questo che occorre urgentemente politicizzare gli interventi, mettendo in campo tutti gli argomenti e tutte le proposte, coalizzandosi, stanando finalmente gli intellettuali pubblici rimasti finora silenti o disposti, al più, a criticare questo o quel ministro, questa o quella scelta di governo. Dobbiamo immaginare un movimento politico e d’opinione di vasto respiro: questo, sì, avrebbe la capacità di sfondare una bolla informativa che al momento sembra indistruttibile.
C’è un lavoro da fare anche sulle nostre strategie e metodologie di comunicazione? Se sì, come diventare più efficaci senza cadere nell’eccessiva semplificazione o nel dibattito polarizzato che invece di creare dialogo tende a consolidare le reciproche posizioni di partenza?
La comunicazione è legata al progetto politico-culturale che si ha (o che non si ha).