C’erano una volta le “lavagne dei pensieri” a Menlo Park. Ma di che si tratta? Sono enormi lavagne poste per decorare la sede della società di Mark Zuckerberg. Sono dei “wall” non virtuali. Sono luoghi dove ognuno può scrivere il proprio pensiero liberamente ed in modalità “share”, apporre la propria firma o fare un semplice disegno. Nessuna regola e nessun limite alla libertà di pensiero e di espressione.
Pare che, negli ultimi giorni, da una di queste preziose lavagne “del libero pensiero” sia stata cancellata la scritta “Black lives matter” (le vite dei neri hanno valore) sostituita dallo slogan “All lives matter” (tutte le vite valgono). Questo fatto ha scatenato la reazione del fondatore del famoso social network che ha inviato una nota molto severa ai suoi dipendenti. “Ero già molto deluso dai comportamenti irrispettosi precedenti”, ha detto Zuckerberg riferendosi al suo ultimo monito rivolto a tutta l’azienda riguardo all’intollerabilità di certi atteggiamenti razzisti. “Ma dopo la mia comunicazione considero la cosa malvagia”. E sebbene, da anni, il fondatore del social più usato nel mondo si prodighi per inserire nel suo organico dipendenti di varie origini, gli impiegati di Facebook sono solo per il 2% dei “black”. Ma “‘Black lives matter’, (uno slogan trasformato in hashtag nel 2012, dopo la morte di Trayvon Martin, e diventato “virale” sui social media insieme alla discussione sulla brutalità usata dalla polizia per ucciderlo, per un approfondimento clicca qui), non significa che le altre vite non abbiano valore”, ha precisato Zuckerberg. “Cancellare qualcosa scritto da un’altra persona significa mettere a tacere quella persona o credere che l’opinione di una persona sia più importante di quella di un’altra (…) Facebook dovrebbe essere un servizio e una community dove ognuno è trattato con rispetto”. Belle parole quelle del papà di Facebook. Peccato che trovino poi uno scarso riscontro nella realtà dei fatti.
Ma, a distanza di pochi giorni, Zuckerberg torna all’attacco sul tema del razzismo e dell’incitazione all’odio. Questa volta, perpetrato non da parte dei suoi dipendenti, ma di alcuni utenti del noto social network, in particolare appartenenti alla community tedesca. Di fatto, Facebook ha proposto di attuare un ulteriore giro di vite sulla pubblicazione di messaggi di presunta incitazione all’odio sui profili degli utenti tedeschi, aggiungendo la categoria degli immigrati/rifugiati ad una sorta di lista dei “soggetti protetti” (pessima traduzione da parte della stampa). L’ha ufficializzato, durante un evento a Berlino, sempre Zuckerberg, sostenendo di non aver fatto ancora abbastanza per contrastare la divulgazione di post considerati razzisti.
Tali considerazioni giungono in seguito all’accordo stretto, lo scorso 15 dicembre (noi ne avevamo parlato qui), proprio con il governo tedesco, che aveva ottenuto dalla società di Palo Alto (oltre che da Twitter e da Google) l’impegno a rimuovere dalla sua piattaforma entro 24 ore i messaggi considerati in violazione delle leggi nazionali in quanto razzisti e discriminatori. Il governo tedesco, infatti, aveva denunciato, in ottobre 2015 (noi ne avevamo parlato qui), i vertici locali di Facebook accusandoli di non far nulla per evitare la propagazione virale e rimuovere i messaggi razzisti. Dato che la pesante accusa avrebbe potuto condurre ad un processo penale i quattro manager del gruppo, la società californiana si è messa subito al lavoro, intensificando i controlli e le censure. “Le incitazioni all’odio non hanno spazio su Facebook e nella nostra comunità”, ha concluso ancora Zuckerberg a Berlino, “fino a poco tempo fa in Germania non credo che stessimo facendo un lavoro abbastanza buono, e credo che avremo di bisogno di migliorare e migliorare ancora”.
Indubbiamente, il percorso verso la liberazione dei social media dai messaggi d’odio è lungo e tortuoso. E ben vengano i buoni propositi, specie se da parte dal CEO di Facebook.
Ma, purtroppo, siamo alle solite e necessitiamo di maggiore concretezza. Il confine tra la necessità di tutelare la libertà di pensiero e di espressione e il dovere di perseguire i discorsi discriminatori e razzisti non è certo sempre facilmente identificabile (avevamo approfondito il tema anche qui). Più volte ci siamo imbattuti in dibattiti sul tema della garanzia della libertà di opinione sui social media, argomento utilizzato per legittimare la pubblicazione di post e messaggi razzisti. Al punto di dover amaramente constatare la nascita di un vero e proprio “social-marketing dell’odio”.
Dunque apparentemente il guru dei social sembrerebbe cadere in una contraddizione affermando contemporaneamente che “cancellare qualcosa scritto da un’altra persona significa mettere a tacere quella persona” e i post “ritenuti“ razzisti devono essere cancellati. Cosa che ovviamente da adito ai commenti distorti dei fautori del libero pensiero ad ogni costo (“Ora, è sempre difficile entrare nei meccanismi mentali antirazzisti, dato che non c’è la minima coerenza logica in essi. In questa disputa, per esempio, il comportamento discriminatorio sembrerebbe quello di chi ha sottolineato il valore delle vite di un solo gruppo etnico”, riporta ad esempio il sito di destra ilprimatonazionale.it).
Il punto cruciale sta dunque proprio nella ricerca di un equilibrio tra il diritto alla libertà di pensiero e quello alla non discriminazione. Entrambi sono diritti fondamentali garantiti dalla legislazione internazionale e nazionale. Il punto è che il Governo tedesco è riuscito a esigere seri e capillari controlli sull’hate speech su Facebook, non risulta che il Governo italiano abbia fatto una richiesta analoga. Si potrebbe proporre a Zuckerberg di farsi un giretto anche dalle nostre parti, per vedere quanto lavoro c’è ancora da fare qui.