Pubblichiamo il comunicato stampa lanciato dalla campagna Lesvoscalling nella seconda edizione del Venice Climate Camp, un campeggio per il clima in Italia che si svolge a Porto Marghera (VE). Il più grande campo profughi d’Europa è ormai una landa desolata e fumante. Ridotte in cenere baracche e bungalow, che fino a qualche giorno fa erano il rifugio delle 12.500 persone accolte nel campo, a fronte di una capienza di 2.700. Ora il problema è la ricollocazione dei migranti. Ma i problemi di Moria vengono da lontano: una tragedia annunciata secondo molti osservatori a causa delle condizioni disumane e del Covid. Lesvos calling è una campagna solidale per la libertà di movimento che ha iniziato a percorrere la cosiddetta rotta balcanica allo scopo di mapparla, raccontarla e soprattutto portare sostegno concreto alle persone che passeranno l’inverno tra le isole greche ed i Balcani.
Il campo di Moria brucia e nuovamente torna visibile, con le fiamme e la cenere, il fallimento delle politiche europee sui rifugiati. Prima del lockdown, come campagna #Lesvoscalling siamo stati diverse volte sull’isola prigione di Lesvos, abbiamo visto coi nostri occhi cos’è Moria e raccontato le condizioni disumane in cui oltre 12.000 persone sono intrappolate dentro quel campo. Tornati, lo abbiamo gridato fino a perdere la voce dal balcone del consolato greco di Venezia e dentro il palazzo della Commissione Ue a Milano. A Lesvos, Chios, Samos e nelle altre isole hotspot, le persone, semplicemente, non dovrebbero esserci. Dovrebbero essere già da tempo lasciate libere di muoversi verso la terraferma o ricollocate dalla Grecia verso gli altri paesi dell’Unione europea. Ma quelle persone in fuga da guerre e miseria sono ostaggio di politiche che hanno come mantra la sicurezza, la difesa dei confini, la selezione. Sulla loro pelle sono stati sottoscritti accordi infami come quello Ue-Turchia del 2016, sono usate come pedine nei giochi di potere geopolitici rappresentati dalle crescenti tensioni tra Grecia e Turchia e dai nazionalisti – uno peggio dell’altro – di tutta l’area balcanica. A casa nostra o a Lampedusa sono i nuovi untori, il facile capro espiatorio per nascondere l’insostenibilità economica, ambientale e sociale del capitalismo, quando appunto è un intero sistema sanitario ad essere collassato a colpi di privatizzazione. L’origine del rogo di Moria è ancora sconosciuta, le autorità affermano che sono stati i rifugiati, esasperati dalle catene della prigionia, da anni di violenza sistematica subita, non ultimo, da ripetute aggressioni e agguati neofascisti. L’effetto è stato tragico e lampante fin dai primi attimi. Migliaia di persone hanno perso le poche cose che avevano e sono costrette a pernottare in strada, con la prospettiva di essere imbarcati su delle navi che andranno a costituire l’ennesimo luogo di prigionia. Diciamo però fin da ora che la soluzione non può essere “ricostruire Moria”, magari abbellendola con qualche servizio in più. Adesso più che mai appare necessaria l’immediata evacuazione di tutte le persone da Lesvos e dalle altre isole con la creazione di “canali umanitari” di ricollocamento nei Paesi europei, la velocizzazione dei ricongiungimenti familiari, e nel contempo la completa revisione delle normative sull’immigrazione e il diritto di asilo, a partire da una radicale modifica del Regolamento Dublino. Queste istanze non possono essere però solamente un patrimonio delle realtà sociali e delle reti di solidarietà che dal basso operano all’interno di questi contesti, bensì ogni amministrazione comunale deve attivarsi immediatamente per divenire una “città rifugio” e farsi promotrice di una campagna per l’accoglienza delle persone in fuga, dando la disponibilità a ri-organizzare il proprio welfare in un’ottica di accoglienza e di sinergia con il tessuto sociale dei vari territori.Mai più Moria! Libertà di movimento! #lesvoscalling#LeaveNoOneBehind