Sostegno, responsabilità, solidarietà. Detenzione, chiusura e respingimenti. Rispetto al tema delle migrazioni, nelle sedi europee le parole si scontrano con i fatti. Non è una novità: purtroppo, è un leit motiv che riecheggia ormai da anni nei palazzi istituzionali e nei discorsi pubblici. Una discrasia tra intenti dichiarati e azioni intraprese emersa anche oggi, durante il vertice informale che ha riunito a Tallin i ministri dell’Interno dei paesi membri.
L’incontro ha mosso le basi dalle sollecitazioni lanciate i giorni scorsi dall’Italia: di fronte a una forte pressione migratoria e alla solitudine con cui continua ad affrontarla (si ricordi, solo a titolo esemplificativo, l’inadempienza dei paesi europei rispetto al programma di relocation), l‘Italia ha chiesto di ridefinire la missione Triton – operazione a guida italiana che ha sostituito nel novembre 2014 Mare Nostrum, per la ricerca e il soccorso in mare – consentendo l’attracco delle navi che effettuano operazioni di ricerca e soccorso in mare anche nei porti di Francia e Spagna, e non solo in quelli italiani, come attualmente previsto. In caso contrario, l’Italia ha minacciato di chiudere i propri porti. Una misura che di fatto creerebbe molti problemi ai migranti, ma pochissimi ai paesi europei: che infatti non sembrano essere stati particolarmente turbati dalla minaccia. Il presidente francese Macron, che pochi giorni fa ammetteva “l’errore europeo di non aver ascoltato l’Italia”, ha reagito all’appello con un categorico no. Gli ha fatto eco il ministro tedesco Thomas de Maiziere: “Non sosteniamo la cosiddetta regionalizzazione delle operazioni di salvataggio”. Dello stesso parere Olanda e Belgio: “Aprire più porti europei ai migranti soccorsi non risolverà il problema. Bisogna pensare al ruolo che i porti africani potrebbero avere, come quelli di Tunisia ed Egitto ad esempio”, ha dichiarato il ministro per la Sicurezza e Giustizia olandese Stef Blok, e il ministro per l’Asilo e le politiche migratorie belga Theo Francken ha affermato: “Non credo che il Belgio aprirà i suoi porti”. Molte parole di comprensione e solidarietà, pochissimi fatti dunque. E il ‘piano di azione’ presentato martedì 4 al Parlamento dalla Commissione Europea, e discusso oggi nella capitale estone, si inserisce in questo binario, non scalfendo in alcun modo la strategia finora adottata dall’Europa, tutta incentrata sulla chiusura delle frontiere, la detenzione dei migranti e il loro respingimento. Con il solito preambolo di belle parole.
“La perdita di vita umane e i continui flussi di migranti, primariamente economici, sul percorso del Mediterraneo centrale rappresentano una sfida strutturale, e restano motivo di preoccupazione urgente”, si legge nell’incipit del piano di azione.
Ma in cosa consiste questo piano, sottoposto oggi al vaglio dei ministri?
Codice di condotta per le ong che effettuano operazioni di search and rescue
La Commissione concorda con la creazione di un codice di condotta, sollecitato dall’Italia, che avrà il compito di redigerlo. L’obiettivo del codice sarebbe un miglior coordinamento delle operazioni delle Ong: anche se di fatto si intravede la volontà di un maggior controllo delle organizzazioni, alle quali si chiede di collaborare con la polizia e con la Guardia Costiera libica, spesso protagonista di atti violenti, come denunciato più volte dai migranti. Va inoltre sottolineato che le ong impegnate in operazioni di ricerca e soccorso in mare hanno già un codice di condotta, trasparente e consultabile.
Il parere delle ong viene sintetizzato dalle parole di Francesco Petrilli, portavoce Concord Italia: “Le minacce italiane di chiudere i propri porti alle navi che trasportano migranti e istituire un codice di condotta per le Ong rappresenta una volontà precisa tesa a spostare l’attenzione dalla mancanza di solidarietà tra i governi europei nella gestione dei flussi migratori. Ma non è limitando le azioni di salvataggio nel mar Mediterraneo, che si potrà affrontare l’emergenza. Ecco perché come Concord esprimiamo forte preoccupazione”.
Più hotspot e più trattenimenti
Secondo la Commissione, l’Italia deve raddoppiare la disponibilità attuale – 1600 posti – all’interno degli hotspot, e aumentare i posti nei centri di detenzione (gli ex Cie), arrivando almeno a 3000, estendendo inoltre il periodo di trattenimento a 18 mesi – il massimo consentito dalle leggi europee. Il ministro dell’Interno Minniti ha in effetti annunciato proprio ieri in Parlamento l’apertura di 6 nuovi hotspot a Palermo, Siracusa, Cagliari Reggio Calabria, Crotone e Corigliano Calabro insieme all’apertura di nuovi Cie.
Più sostegno alla Libia per controllare le frontiere
Il piano prevede di “rafforzare ulteriormente le capacità delle autorità libiche nel controllo delle frontiere, con 46 milioni di euro” che si sommerebbero ai 200 milioni già stanziati da gennaio 2017.
Nuovi finanziamenti a supporto dell’Italia
Si prevede di aumentare l’aiuto all’Italia, con lo stanziamento di 35 milioni di euro, che andrebbero ad aggiungersi ai fondi già previsti – 558 milioni di euro per l’Italia, seguita da Spagna e Grecia, nell’ambito dei Fondi FAMI e FSI, compresi all’interno della strategia 2014-2020 prevista dall’Europa su migrazioni e asilo.
Meno asilo e protezione
Con una generica richiesta di velocizzare le procedure per il riconoscimento dell’asilo, la Commissione europea sollecita l’Italia a “utilizzare i motivi di irricevibilità” e “evitare di fornire documenti di viaggio ai richiedenti asilo per evitare movimenti secondari”: un appello, di fatto, a limitare i riconoscimenti della protezione e la libertà di movimento.
Paesi terzi: soldi in cambio di riammissioni e blocco delle partenze
L’Europa continua a puntare sui respingimenti, incentivando gli accordi di cooperazione e riammissione con i paesi di origine e di transito, in totale contrasto con la libertà di movimento individuale e fingendo di ignorare le condizioni di privazione dei diritti e povertà che regnano in molti di questi paesi – tra i quali, ad esempio, Niger, Libia, Sudan. Presentando il piano, la Commissione ha evidenziato “l’operato degli ultimi due anni portato avanti con l’obiettivo di salvare vite in mare e gestire il crescente numero di arrivi lungo la via del Mediterraneo Centrale”. Un concetto sottolineato dal presidente della Commissione Juncker, secondo il quale “abbiamo fatto enormi progressi negli ultimi due anni e mezzo verso una vera politica di migrazione dell’UE”. Ma queste parole si scontrano con la realtà, fatta di un preoccupante aumento del numero delle persone che perdono la vita cercando di raggiungere l’Europa: un aumento di cui le istituzioni sono responsabili, come sottolineato da Amnesty International. “I governi europei hanno dato priorità a contrastare il traffico di esseri umani e impedire le partenze dalla Libia: una strategia che ha dato luogo a viaggi in mare ancora più pericolosi e all’aumento dei tassi di mortalità in mare dallo 0,89 per cento della seconda metà del 2015 al 2,7 per cento del 2017”, si legge nella nota con cui la ong diffonde il rapporto ‘Una tempesta perfetta. Il fallimento delle politiche europee nel Mediterraneo centrale‘ . Secondo i dati diffusi da Amnesty, sono oltre 2000 i morti, solo nei primi sei mesi del 2017: nonostante questa situazione, “l’Unione europea continua a non promuovere un’operazione umanitaria dotata di risorse adeguate nei pressi delle acque territoriali libiche, preferendo rafforzare la capacità operativa della Guardia costiera libica nell’impedire le partenze ed intercettare i migranti e i rifugiati in mare”.