Sembra passato un secolo, sono stati solo due anni fa.
Il 5 luglio 2016 Emmanuel Chidi Namdi, richiedente asilo nigeriano di 36 anni, è morto di razzismo per strada a Fermo per mano di un simpatizzante di Casa Pound. Tutti gli elementi emersi nel corso dell’indagine l’hanno chiarito così come l’ha riconosciuto la Corte di Cassazione.
Eppure, pur di rimuovere la matrice razzista di quell’omicidio, si fa di tutto. Compreso evitare di scrivere sulla targa cittadina in sua memoria la parola razzismo. Così ha deciso il Consiglio comunale di Fermo. E’ un dettaglio? Forse.
Secondo noi no. Rivela la difficoltà persistente nel nostro paese a riconoscere che non siamo immuni dalle violenze razziste, anche di fronte all’evidenza dei fatti.
E di fatti purtroppo ne sono seguiti molti altri. Il raid di Macerata del 3 febbraio, l’omicidio di Idy Diene a Firenze del 5 marzo e quello di Soumaila Sacko a San Calogero del 2 giugno scorso sono solo i più recenti.
C’è chi ritiene che stendere un velo di oblio e di rimozione sul razzismo del Bel paese sia la strategia migliore per evitare che dilaghi più di quanto sta avvenendo. Sino ad oggi non sembra aver prodotto gli effetti auspicati da chi l’ha seguita.
Per rispetto di Emmanuel e di tutti coloro che il razzismo lo vivono sulla loro pelle, evitiamo oggi di scrivere parole di circostanza. Chi volesse dedicare un quarto d’ora della propria giornata a ricordare quello che è successo due anni fa può leggere qui e qui).
Noi intanto continuamo a raccontare ciò che succede ogni giorno in modo corretto, senza enfatizzazioni, senza allarmismi e generalizzazioni, ma anche senza rinunciare a usare le parole giuste.
E quando si muore di razzismo, una società giusta e civile avrebbe il dovere di riconoscerlo.