Sappiamo che non è facile scegliere le priorità in un momento così complicato. Il virus sconosciuto che ha sconvolto le nostre vite sta ribaltando letteralmente l’ordine di cose esistenti, costringendo a cambiare passo.
Non è semplice far fronte a una sfida che in un mese ha causato la morte di più di 12mila persone (in realtà sappiamo che purtroppo sono molte di più). Insomma, sappiamo che chi deve prendere decisioni ha un compito molto difficile da svolgere perché le “emergenze” da affrontare sono molte. E immaginiamo anche che le “pressioni” più o meno sinceramente ispirate al benessere collettivo siano molte.
Però.
Sono passate alcune settimane dall’inizio della diffusione della pandemia Covid-19 e ci sono alcune cose che si sarebbero potute fare facilmente e non sono ancora state fatte.
Ci riferiamo in particolare alle misure necessarie per tutelare la salute delle 84.946 persone (dati di oggi 31 marzo, ministero dell’Interno) ospitate negli hotspot (98), nei centri di accoglienza per richiedenti asilo (62.428) e rifugiati (22.420), di quelle che vivono senza fissa dimora nelle nostre città (a Roma ad esempio si stima siano circa 8mila) e dei rom che vivono ancora segregati in molti campi del disprezzo. La mancanza di indicazioni chiare dal livello centrale (ministero dell’Interno) e territoriali (Comuni e Prefetture), che vadano oltre i generici suggerimenti di ottemperare le norme di base di sicurezza sanitaria, finora non ha ancora provocato, per fortuna, nessuna di quelle “bombe sociali” che qualcuno evoca continuamente per poter tornare presto a riversare le giuste inquietudini sanitarie, economiche e sociali contro antichi capri espiatori.
Le istituzioni possono decidere di continuare a rischiare, sperando che l’inversione della curva del contagio registrata in questi giorni acceleri velocemente e ci faccia “uscire da casa”. Oppure possono decidere di intervenire velocemente sui molti fronti indicati da diversi appelli e documenti elaborati dalla società civile. Tra i molti, quelli promossi da Asgi e Action Aid (ne abbiamo parlato qui), Tavolo asilo (ne abbiamo parlato qui), una rete molto ampia di organizzazioni e movimenti sociali romana (ne abbiamo parlato qui).
Che di fronte a un’emergenza imprevista e sicuramente straordinaria l’attenzione si concentri sulla messa in sicurezza del sistema sanitario pubblico (uno dei più efficienti al mondo, ma tartassato da decenni di tagli impietosi), è comprensibile.
Che le molte necessità richiedano sforzi di programmazione non facili da definire e implementare si capisce. Ma se proposte di buon senso come quelle avanzate restano ignorate, allora il mancato intervento diventa inerzia. Colpevole.
Si potrebbe, come ha fatto il governo portoghese, regolarizzare immediatamente le migliaia di persone straniere senza documenti presenti sul territorio per facilitare il loro accesso al servizio sanitario nazionale, a partire dai molti braccianti stranieri che lavorano nelle campagne.
Si potrebbe, come è stato fatto a Barcellona, chiudere subito i centri detenzione che non hanno mai avuto, ma a maggior ragione oggi non hanno, alcuna utilità sociale: le persone lì ospitate non possono essere infatti rimpatriate, stante la chiusura delle frontiere di molti paesi a chi proviene dall’Italia.
Si potrebbe disporre subito e in carico a Comuni e Prefetture la sanificazione di tutti i locali dei centri di accoglienza.
Si potrebbe riorganizzare la presenza nei centri in modo da consentire il rispetto delle regole di distanziamento sociale.
Si potrebbe dotare subito di mascherine, guanti e disinfettanti tutti gli enti gestori e gli operatori che gestiscono servizi di accoglienza e di supporto sociale.
Si potrebbe dotare i bambini (italiani e stranieri) che non hanno un computer e un collegamento online di ciò che serve per evitare che la scuola a distanza si traduca in una interruzione totale del percorso scolastico.
Si potrebbero individuare, con le dovute accortezze, strutture alberghiere per mettere in sicurezza i senza fissa dimora.
Infine. Si potrebbe ovviare da subito all’ingiusta discriminazione che vede i cittadini stranieri esclusi dall’accesso alla Carta Famiglia resa operativa qualche giorno fa, ma non per tutti coloro che ne hanno più bisogno.
Gran parte di questi interventi erano già necessari prima e a prescindere dalla diffusione del Coronavirus.
Oggi lo sono ancora di più.