Recensione de Il dovere di integrarsi. Cittadinanze oltre il logos multiculturalista, a cura di Russo Spena M., Carbone V. (Armando Editore, Roma, 2014).
I curatori del libro motivano la scelta percorsa, quella di un’analisi critica dell’ “Accordo di Integrazione” entrato in vigore nel 2012, evidenziando che esso implica e comporta un «accesso differenziato ai diritti» e che la sua introduzione è l’esito di un percorso che ha escluso i migranti. Secondo Carbone e Russo Spena l’ “Accordo di integrazione” si colloca nel più ampio panorama di proposte e di interventi sociali ispirati a modelli neoassimilatori e monodirezionali.
Il “dovere di integrarsi”, secondo i termini previsti dalla legge, è la dimostrazione a cui il migrante deve sottoporsi, attraverso un sistema di crediti da conseguire, per dare prova delle proprie capacità e conoscenze – a partire da quelle linguistiche ma anche morali, sociali ed economiche – del vivere nella società di “accoglienza”, nell’ottica di una «responsabilizzazione individuale di tipo punitivo».
L’”integrazione” così intesa rivela il limite di una concezione che riguarda il merito, anziché un processo biunivoco di costruzione dei percorsi di inclusione sociale come definito dalla Comunicazione della Commissione europea “Immigrazione, integrazione e occupazione” nel 2013, e che sottende il disegno di politiche securitarie, di controllo e di esclusione dai diritti di cittadinanza. Ed è proprio il riferimento alla cittadinanza a dover esser riconsiderato poiché, per come si è storicamente istituito, stabilisce sulla base di un’appartenenza precostituita, in Italia ancora legata alla discendenza “per sangue”, chi può usufruire dei diritti e chi ne resta escluso, come argomentato nel saggio di Enrica Rigo. Il tema della cittadinanza rivela tutta la sua limitatezza attraverso l’adozione di una prospettiva generazionale e in particolare se si considerano le cosiddette “seconde generazioni”, così definite sebbene in molti casi non abbiano mai affrontato un percorso migratorio o non ne conservino alcun ricordo. Monia Giovannetti ripercorre le recenti proposte di riforma della legge sull’acquisizione della cittadinanza da parte dei giovani di origine straniera. L’apprendimento della lingua e la conoscenza di elementi di cultura civica, negli intenti dei promotori dell’Accordo di Integrazione, non sarebbero altro che le condizioni e i requisiti di accesso ad una cittadinanza asimmetricamente intesa come «patto di lealtà» e di «disciplinamento sociale», come spiegano Giuseppe Faso e Alan Pona.
I diversi contributi di cui si compone il libro analizzano da differenti prospettive la traduzione in chiave discriminatoria della retorica improntata sul discorso multiculturalista dell’alterità e dell’integrazione silenziosa. Michele Colucci sottolinea la necessità di una relazione tra le memorie della migrazione e i modelli di integrazione proposti. Andrea Priori decostruisce il dispositivo che regola il Piano per l’Integrazione e che ricorre a concetti mistificatori di volta in volta utilizzati con significati contraddittori secondo finalità di mantenimento di forme di dominio e di modelli di esclusione. La “comunità”, ad esempio, viene prima considerata come fattore di svantaggio o di conflitto e poi come unità di coesione e di facilitazione dell’accesso al welfare. Nazzarena Zorzella offre un’analisi dell’impianto normativo che regola l’Accordo di Integrazione in Italia mentre Enrico Cesarini confronta la situazione italiana con le esperienze di altri paesi europei. Sul confronto tra le esperienze europee sotto l’aspetto della formazione linguistica si sofferma invece Paola Berbeglia nell’ultimo capitolo, presentando possibili sviluppi e opportunità a partire dalla valorizzazione delle lingue. La Carta dei Valori della Cittadinanza e dell’Integrazione del 2007, attraverso la tracciabilità di un’alterità integrabile e di una identità nazionale rilevate da Roberta Denaro nel suo saggio, sembra rappresentare l’inizio di una intenzionalità coerente a quella che sarà più esplicitamente sancita cinque anni dopo con l’Accordo.
Come ricordano Maurizia Russo Spena e Vincenzo Carbone «mentre il lessico insistente dell’”integrazione” allude a dispositivi di disciplinamento, i “porosi” percorsi di “integrazione” sono, piuttosto, da interpretare come campo di tensione, negoziazione e conflitto tra la “nominazione autoritaria”, le politiche di controllo e segregazione (anche fisica) e la produzione di pratiche di “resistenza”, di “atti di cittadinanza” volti a conquistare e rappresentare nuovi diritti nello spazio globale».