Dieci giorni dopo l’incendio che, nella notte tra l’8 e il 9 settembre, ha distrutto l’hotspot di Moria, la posizione dell’Unione Europea in tema di accoglienza rimane di chiusura. «Penso che dobbiamo continuare a lavorare per il controllo delle nostre frontiere e a collaborare con i Paesi esterni per essere più efficaci nelle politiche migratorie» dice Charles Michel, presidente del Consiglio Europeo, in visita al nuovo campo di Lesbo, lasciando intendere, come riporta Il Manifesto, che, nonostante la tragedia, le priorità dell’Unione Europea in materia rimangono le stesse.
Controllo, esternalizzazione delle frontiere, deterrenza e nessuna attenzione a politiche strutturali che mettano in primo piano i diritti umani. In un’Europa incapace di stabilire linee guida condivise, in cui molti stati membri fanno muro di fronte a qualsiasi ipotesi di ripartizione dei richiedenti asilo, ben pochi si sono detti disposti ad accogliere gli sfollati di Moria.
Ad oggi hanno trovato accoglienza in Francia e Germania i 400 minori non accompagnati e altri 1.553 verranno probabilmente accolti dallo stesso governo tedesco. Dagli altri Stati (Italia compresa) silenzio e indifferenza. Per gli oltre 10.000 migranti ancora intrappolati sull’isola si prospetta il ritorno nell’inferno di un nuovo campo immediatamente ricostruito con i finanziamenti europei.
Il 12 settembre, infatti, il governo greco ha eretto una tendopoli in un’ex base militare circondata da filo spinato, allo scopo di evitare possibili fughe da parte dei profughi. Michalis Chrysochoidis, ministro della protezione civile greco, ha assicurato che, se entreranno nel nuovo centro (una volta entrati non sarà più possibile uscire), si registreranno e aspetteranno il trasferimento, tutti i migranti lasceranno Lesbo, i primi 6000 entro Natale, gli altri entro Pasqua. Chi non accetterà vedrà interrompersi il proprio iter per la richiesta d’asilo. Nonostante l’evidente ricatto, ben pochi hanno raccolto l’invito. Memori di Moria, solo in 1.000 per ora hanno accettato di entrare nel nuovo campo. Gli altri 10.000 hanno preferito la strada ad una nuova detenzione.
Sin dagli inizi più una prigione a cielo aperto che un luogo d’accoglienza, Moria, non è stata vittima di sfortunate circostanze, dolose o colpose che siano, ma l’esito annunciato da tempo di politiche locali ed europee poco lungimiranti. Spaventata dalla crisi umanitaria del 2015, l’Unione Europea ha adottato l’approccio hotspot, per aiutare i paesi di confine nelle operazioni di identificazione e registrazione.
La dichiarazione UE-Turchia, del 18 marzo 2016, inoltre, ha stabilito, tra l’altro, che i rifugiati sbarcati nelle isole del Mar Egeo avrebbero dovuto fare richiesta d’asilo sul luogo e lì attenderne l’esito. Queste due scelte politiche, che in teoria puntavano a limitare i flussi, nella pratica hanno portato la stragrande maggioranza dei rifugiati a concentrarsi sulle isole d’arrivo. A parte pochissime eccezioni, a nessuno è permesso di trasferirsi nella Grecia continentale e ciò, anche in considerazione dei tempi biblici con cui vengono evase le richieste d’asilo, ha trasformato gli hotspot in centri molto affollati e letteralmente disumani.
Moria, programmata per accogliere 3.000 rifugiati, al momento dell’incendio ne ospitava oltre 12.000, la maggioranza delle quali vivevano in accampamenti informali sorti ai margini dell’hotspot, con strutture e servizi al di sotto di qualsiasi standard umanitario: assenza di elettricità, un bagno ogni 150 persone, una doccia da condividere in 500 e acqua potabile per solo 5/6 ore al giorno.
Una situazione molto critica anche dal punto di vista medico-psichiatrico. A Moria, in assenza di personale sanitario sufficiente, solo i casi più gravi venivano presi in carico e, come riportato dall’International Rescue Committee, il 64% soffriva di depressione, il 60% aveva pensieri suicidi e il 29% aveva provato a togliersi la vita.
Di fronte a una situazione del genere, che il rogo dell’8 settembre non ha fatto che evidenziare, e a meno di una settimana dal nuovo Patto europeo sull’immigrazione, 378 tra organizzazioni, movimenti, membri del parlamento europeo e altre realtà della società civile hanno firmato una petizione per chiedere cambiamenti radicali nelle politiche migratorie europee. L’appello, rivolto ai leader europei e alla Commissione Ue, punta a introdurre politiche che mettano al centro i diritti dei migranti e avanza tre richieste fondamentali: l’immediata evacuazione dei profughi fuggiti dall’incendio e il conseguente ricollocamento in tutta Europa; il superamento di un approccio alle migrazioni che intrappola sulle isole, in condizioni disumane, i richiedenti asilo; la messa in atto di politiche migratorie volte all’inclusione, che mirino a una maggiore responsabilità e solidarietà da parte di tutti i paesi europei e a mettere fine alla costante violazione dei diritti umani alle frontiere.
Ripensare Dublino, l’approccio hotspot, l’accordo dell’Europa con la Turchia e con la Libia. Le politiche migratorie europee degli ultimi anni hanno relegato il migrante in una posizione marginale e hanno finito per trasformarlo in semplice ostaggio nella grande partita giocata dai vari Stati nella difesa dei rispettivi confini. La detenzione forzata in spazi ridotti, le attese infinite, le condizioni igienico sanitarie inimmaginabili, le malattie fisiche e psichiche non curate, le molte violenze, sono state considerate finora alla stregua di un “danno collaterale”, di diritti umani sacrificabili sull’altare della realpolitik. Rimettere al centro del discorso quei diritti e ripartire da lì dovrebbe essere l’imperativo morale del nuovo Patto europeo sulle migrazioni sarà presentato nei prossimi giorni, per trasformare davvero la tragedia di Moria in un punto di svolta e non in un’altra occasione sprecata.
Lorenzo Lukacs