Oggi una serie di flash mob, in Italia e in Europa. E poi, il 22 giugno, una manifestazione europea a Strasburgo. Sotto la sede del parlamento. I sindacati europei lanciano l’allarme: c’è una mina sotterrata sotto le discussioni un po’ difficili da seguire dell’assemblea europea, sotto codici, codicilli, procedure di approvazione complicatissime. Eppure la direttiva di applicazione che dovrebbe finalmente dare regole stringenti a quella approvata nel 1996 sul distacco comunitario, rischia di far esplodere il mercato del lavoro, già in gravissime difficoltà a causa della crisi economica. E a farne le spese saranno i lavoratori dell’est, anche se visti dall’Italia potrebbero essere considerati i “nemici”. Quelli che attraversano le frontiere e fanno dumping sociale. Ma sono prima di tutto i loro diritti ad essere calpestati. Ora, si teme, con l’ok delle leggi europee.
Il problema si chiama “distacco comunitario”. Ed è ben noto ai sindacalisti e agli ispettori del Lavoro. Si tratta di questo: qualsiasi ditta europea può partecipare a un appalto o svolgere un lavoro in un altro paese Ue. Ma come funziona con i lavoratori? Questi mantengono il loro contratto del paese di origine, ma la direttiva del ’96 specifica che il salario deve essere equiparato a quello del paese ospitante: un lavoratore rumeno assunto in Romania che viene a lavorare per un appalto in Italia deve guadagnare tanto quanto un lavoratore italiano. Bene, ma c’è un ma. E sono i contributi: questi, infatti, vengono versati nel paese di origine. “E già questo è un bel risparmio per una azienda italiana – spiega Romano Baldo, che per la Fillea Cgil segue i contratti – ma la direttiva compensa questa ‘differenza di prezzo’ con l’obbligo per l’azienda di assicurare al lavoratore vitto, alloggio e trasporto. Il problema è che si tratta di cose difficilmente controllabili, e che le segnalazioni che piovono sui sindacati sono ormai migliaia: i lavoratori sono costretti a dormire nei capannoni, non c’è alcun rimborso. Ma non solo: succede che partono dal paese di origine con i contratti, e poi vengono licenziati continuando a lavorare al nero. Come si fa a controllare tutto questo? E’ impossibile”.
Così succede che un muratore rumeno viene ingaggiato per fare un lavoro in Italia ed è costretto ad accettare condizioni durissime: si dorme in cantiere. E se sul contratto c’è scritta una cifra, corrispondente al “salario” italiano, da quella cifra vengono trattenuti i costi di vitto e alloggio che secondo la legge dovrebbe pagare in aggiunta l’azienda. All’uopo sono nate anche agenzie del lavoro, come raccontava un’inchiesta dell’Espresso la scorsa settimana, che hanno come scopo proprio quello di offrire “pacchetti di lavoratori” a prezzi bassissimi alle aziende italiane.
Proprio per evitare questi abusi, da parte dei sindacati era arrivata forte la pressione affinché la direttiva fosse rivista, imponendo regole più rigide, controlli più capillari, sanzioni più severe per chi “sgarrasse”.
Paradossalmente le cose stanno andando proprio all’inverso: la direttiva di applicazione in discussione tende a liberalizzare ancora di più le possibilità di impiego, come sempre facendo leva sull’illusione che minori controlli e più “libertà” porteranno alla creazione di chissà quanti posti di lavoro. Il giudizio dei sindacati, forti peraltro di quanto accaduto finora, è l’opposto: “La nuova direttiva rischia di creare un dumping sociale insostenibile – osserva Baldo – esportando in tutti i paesi europei condizioni di lavoro da fame e sfruttamento”. Insomma, invece di creare un’Europa che si contagia reciprocamente con le migliori esperienze di ciascun paese, il contagio è al ribasso. “Basti dire – prosegue Baldo – che la nuova direttiva prevede come sanzione per chi sgarra di ‘scalare’ di trattato. Cosa significa? Che quell’azienda non potrà più approfittare del distacco comunitario. Tradotto: potrà tranquillamente esportare lavoratori mantenendo pure il salario rumeno. Figurarsi: non vedono l’ora. Praticamente è un’incitazione a violare le regole del distacco”.
La Confederazione europea dei sindacati ha inviato una lettera ai deputati del Parlamento europeo e ai ministri del Lavoro dei paesi Ue mettendoli sull’avviso: “Se non fermiamo questa direttiva ora la direttiva di attuazione diventerà una direttiva Bolkenstein!”. I sindacati spiegano quali sono i punti che vanno chiariti “inequivocabilmente”, al fine di evitare “truffe”. Il primo è che ci sono solo due possibilità: o il lavoratore è distaccato, e allora per lui devono valere i diritti prescritti dalla direttiva, oppure sono lavoratori emigranti, e quindi per loro valgono gli stessi identici diritti dei lavoratori del paese ospitate, compreso il versamento dei contributi presso l’Istituto di previdenza di quel paese. Il secondo è che il datore di lavoro deve pagare direttamente al lavoratore tutti i costi legati a vitto, alloggio e trasporto per tutto il tempo del distacco all’estero. Il terzo punto è che i paesi ospitanti devono poter effettuare tutti i controlli che vogliono, senza alcun tipo di limitazione. L’ultimo punto è che le aziende a capo dell’appalto vanno considerate responsabili di tutto ciò che accade nei subappalti, e in alcun modo il subappalto può essere considerato un modo per evitare di avere responsabilità dirette. Pena, come vuole il buon senso, l’incentivazione della pratica del subappalto. Non si tratta di richieste gravose, ma solo in linea con la legge e i diritti dei lavoratori. Eppure bisognerà andarlo a gridare a Strasburgo sotto le finestre del Parlamento europeo.