Su “Sette” del 6 maggio, Federico Fubini riprende il discorso su un suo intervento riguardante un centro di accoglienza, uscito sul “Corriere della sera” del 26 aprile, e si dichiara sorpreso dalle reazioni che quell’articolo aveva suscitato. Meno interessano qui le adesioni poco gradite a Fubini, che l’hanno letto come uno dei loro, a sostenere che i migranti vanno “sbattuti fuori”. Non era questo che sosteneva il giornalista, certo, ma molti appigli li dava. Più rilevanti sono le critiche di coloro che, come Fubini lamenta, gli “hanno dato, semplicemente, del cialtrone. Per loro il mio articolo è pieno di errori e inesattezze, scritto con l’intento di offuscare e non spiegare, pregiudizialmente contrario agli stranieri”. Meglio appellarsi a una “maggioranza silenziosa”, che secondo Fubini pensa come lui, ma è quasi invisibile nel discorso pubblico. Sono abbastanza anziano da aver constatato per decenni che la presunta “maggioranza silenziosa” è stata spesso al centro del discorso pubblico; e mi chiedo ancora una volta come si possa evocarla per dichiararsene interpreti fedeli.
Presentando in forma caricaturale e forzata le argomentazioni di chi lo ha criticato – che non ha parlato, mi pare, di “intenti”, né di una sua posizione “pregiudizialmente contraria agli stranieri” – Fubini evita di dire che le critiche più severe erano state espresse da Gianfranco Schiavone, vicepresidente dell’Associazione per gli Studi giuridici sull’immigrazione, ed erano state riportate tali e quali sul sito della “Carta di Roma”. Non si tratta di tirare in ballo autorità, ma di ricordare che le espressioni di disaccordo provengono da organizzazioni e istituzioni che non sono solite attaccare gli intenti e le pregiudiziali, ma tendono a misurarsi con le posizioni espresse e gli effetti prodotti.
Rispetto alle posizioni espresse dieci giorni fa, ora Fubini segna più di un ripiegamento, a parte l’arroccamento su un punto. Segno che bene ha fatto Schiavone a:
• rintuzzare le righe spese a lamentare “ricorsi e controricorsi” attraverso “piccoli avvocati” per “guadagnare tempi e restare qui”; è assai grave che vengano stigmatizzati i richiedenti asilo, e che sia messa in caricatura la funzione dell’avvocato di garantire l’effettività dei loro diritti;
• chiarire che il ricorso in appello non garantisce automaticamente il perdurare delle misure di accoglienza;
• rilevare che gli ospiti della struttura visitata da Fubini (una sola su oltre 3000) vengono presentati come pigri, svogliati, e come persone che non distinguono una medicina da una caramella alla menta;
• notare come la contorsione linguistica di Fubini, secondo la quale “il gestore dell’hotel deve impegnare un bilancio che vale oltre 1100 euro al mese per ciascuno di essi” può non far comprendere che si tratta della quota che il gestore incassa, e che va moltiplicata per 219; circa 240.000 al mese, che rendono meno eroici i suoi investimenti, e più solide le sue responsabilità sulla gestione, o sul fatto che i corsi di italiano o da pizzaiolo vengano seguiti o no; di tali responsabilità Fubini non parla;
• rilevare che Fubini non descrive al lettore lo scandalo della disorganizzazione italiana, che concentra 219 richiedenti asilo in un hotel calabrese in via “straordinaria”;
• concludere che “esistono certamente modelli organizzativi che inducono all’inerzia e alla passività, ma nell’articolo le posizioni ideologiche travestite da inchiesta sovrastano ogni ragionamento”.
Forse si capisce meglio perché in molti abbiano travisato le buone intenzioni di Fubini annettendoselo nelle schiere di chi giudica gli stranieri “opportunisti, pigri, viziati, pronti a sfruttare il nostro sistema democratico e le risorse pubbliche per un indebito guadagno”: cerca così di distanziarsene il Fubini più recente, attenuando o facendo sparire molte delle affermazioni del suo precedente articolo.
Ne resta però una, e cruciale. Il giornalista aveva scritto, nell’articolo del 26 aprile che “quasi nessuno di loro viene da guerre e persecuzioni, tutti hanno presentato domanda di asilo politico per guadagnare tempo e restare qui”. Schiavone aveva chiesto come il giornalista avesse potuto accertarlo. Ora Fubini, per coprire quell’affermazione incauta, insiste, affermando che gli ospiti di Vibo Valentia “in gran parte vengono da paesi dell’Africa sub-sahariana non inclusi nella lista di quelli che danno diritto all’asilo politico in Europa, quando se ne è cittadini”.
Anche stavolta l’infelice ingorgo espressivo copre un’argomentazione per più aspetti fallace.
Per la Convenzione di Ginevra, non ci sono diritti all’asilo garantiti automaticamente dal fatto di essere cittadini di paesi segnati in una lista. Lo status viene riconosciuto a singoli individui, in base all’accertamento dei loro percorsi biografici, e fin dal 1967 sono state abrogate le limitazioni geografiche vigenti nel trattato originario, del 1951.
Sarebbe interessante capire come mai Fubini rilancia come ovvia e già realizzata l’idea di una lista, gradita a una parte della popolazione europea, e riaffiorante in maniera più o meno subdola nei discorsi di tanti politici, ma contraria, non solo per fortuna, a trattati internazionali.
Naturalmente non può esistere una lista di paesi i cui cittadini hanno, in quanto tali, diritto all’asilo politico in Europa; ma questa confusa espressione di Fubini, dando per scontata che una lista ci sia, rimanda a una spinta diffusa a redigere liste di “paesi sicuri” (i cui cittadini siano cioè al sicuro da persecuzioni, torture, violenze e trattamenti disumani o conflitti armati); e in Commissione europea ci sono da mesi spinte a proporre una lista comune, ferma per ora ad alcuni stati europei non-UE e alla Turchia (per un approfondimento nei documenti ufficiali si veda qui e qui). Certo, ritenere sicura la Turchia, anche se in Europa il 23% dei richiedenti asilo di nazionalità turca sono stati riconosciuti come aventi diritto a forme di protezione, era fino a ieri una forma di sbadataggine, come avrebbe detto con sarcasmo Oscar Wilde; oggi, a seguito di altri gravissimi fatti riguardanti la negazione dei diritti e dell’incolumità di giornalisti non di regime, suscita l’allarme ufficiale del presidente del Consiglio Renzi. E c’è da aggiungere che nelle liste formulate da alcuni Stati, come l’Inghilterra, vengono scandalosamente dati per sicuri Paesi come il Gambia, il Mali, la Nigeria. Tali pressioni hanno un effetto ben più infausto delle posizioni di Fubini, se è vero che i dinieghi alle domande dei richiedenti asilo salgono dal 39% del 2014 al 58% del 2015 (Si vedano i dati diffusi dal Viminale); ed è prevedibile che questo numero continui a crescere, inducendo a ritenere che il clima di rifiuto diffuso pesi sulla serena valutazione delle Commissioni – che dovrebbero valutare il diritto individuale all’asilo o a una forma di protezione umanitaria.
Nonostante queste spinte a formulare liste, che in Italia hanno avuto come precursore Matteo Salvini, e che hanno portato nei fatti alla sempre più frequente negazione della possibilità di richiedere il diritto di asilo, l’adozione di liste non scritte da parte di forze di polizia è illegittima. Si vedano gli allarmi di osservatori assai qualificati, come Alessandra Ballerini, ASGI e NAGA.
Se poi il filtro viene affidato agli umori e alle impressioni di altri soggetti, si ottiene un rumore di fondo che fa scomparire alcune certezze che ancora resistono all’ “Addio Ginevra bella”, e che sono formulate nella stessa scheda informativa della Commissione europea che propone l’adozione di una lista comune, facilmente raggiungibile da parte di chiunque. Vi troviamo ribadito esattamente il contrario di quanto auspica Fubini (ma già Salvini, etc.): “No a respingimenti automatici. Ogni cittadino ha il diritto di fare richiesta di asilo. Le domande continueranno ad essere valutate su base individuale, caso per caso. Garanzie forti, compreso il diritto di fare appello, restano in vigore.” E restano in vigore, nonostante gli attacchi alla Salvini (e gli adattamenti alla Fubini) e gli escamotages pusillanimi di molti attori europei, le ragioni che hanno portato alla formulazione dell’art. 1 della Carta di Ginevra: il termine «rifugiato» si applica «a chiunque, nel giustificato timore d’essere perseguitato (…), si trova fuori dello Stato di cittadinanza e non può o, per tale timore, non vuole domandare la protezione di detto Stato». Su quel “chiunque” si può leggere con vantaggio un intervento di Sergio Bontempelli.
Forse la considerazione che tra quei “chiunque” può ritrovarsi ciascuno tra i 219 individui presenti nell’hotel, avrebbe condotto Fubini a una diversa attenzione nei confronti degli ospiti dell’hotel da lui visitato, e a una diversa lettura del loro comportamento a partire dalle condizioni concrete dell’accoglienza; e meno a ripetere le lamentele di chi gestisce quell’albergo sulla necessità di “stanare” gli ospiti (pagandoli!) per indurli a seguire un corso di formazione o di lingua. Gli standard dell’accoglienza richiesti dal Ministero, e spesso elusi col pretesto dell’emergenza, richiedono, impongono, e dovrebbero verificare ben altre modalità, cui gli ospiti dei centri hanno diritto – come non si capisce dai due articoli di Fubini.
A circa mezzo secolo dagli studi di Goffman, ci si potrebbe rendere conto che nelle istituzioni totali la natura degli ospiti viene ridefinita in modo tale da farli divenire il tipo di oggetto sul quale può essere operato un servizio sociale, e perciò ci si dovrebbe fidar poco delle dichiarazioni di chi ha interesse a “ospitare” i richiedenti asilo per la modica cifra di 240.000 euro al mese: sarebbe pertanto più dignitoso evitare di dedicarsi al gusto di facili attribuzioni “psicologistiche” (la svogliatezza, etc.) e cercare di comprendere come la gestione di questi luoghi possa pesare decisivamente sui comportamenti concreti degli ospiti-internati, in modi che sembrano essere sfuggiti a Federico Fubini. Ci sarebbe spazio per una inchiesta attendibile, e per un efficace lavoro giornalistico.
Giuseppe Faso