Siamo in pieno Carnevale, e si sa, ogni scherzo vale. Ma di certo non intendevano scherzare i due cittadini italiani – di trentadue e ventiquattro anni, entrambi pregiudicati- arrestati mercoledì scorso a Rescaldina (Mi) con le accuse di “tentata rapina aggravata in concorso, ricettazione e porto di arma clandestina”. Eppure i due rapinatori erano convinti che con un po’ di fondotinta marrone scuro, al posto di usare le “solite” sciarpe, passamontagna, maschere ed occhiali, usati per il «classico» camuffamento del perfetto rapinatore, il piano avrebbe funzionato. E cosi hanno “colorato” la pelle di scuro (tanto che uno di loro era riuscito persino a nascondere i tatuaggi, ndr) in modo tale, che secondo le loro intenzioni, sarebbero stati scambiati per “stranieri”. L’obiettivo era quello di sviare le successive indagini e far ricadere la colpa su persone straniere. Ma, purtroppo per loro, non hanno considerato il gps sull’auto che avevano rubato, e sono stati bloccati e arrestati dai carabinieri prima ancora che varcassero l’uscio delle poste di Rescaldina.
È una vicenda surreale e a suo modo “creativa”, quella sin qui descritta, ma non del tutto nuova. Sono anni ormai che bastano poche dichiarazioni o pochi dettagli perché si scateni la caccia al nero o allo straniero o lo si renda “colpevole” di qualche cosa.
Non possiamo dimenticare Erica e Omar a Novi Ligure (era il 21 gennaio del 2001), che non avevano ancora finito di raccontare la loro versione dei fatti, che già si parlava di caccia allo straniero per le strade della città. La gente di Novi invocava la forca per i crudeli “albanesi” che avevano distrutto una famiglia, mentre Erika a 16 anni, descriveva il volto degli assassini di sua madre e del fratellino di 12 anni. Accurata, precisa, lucida: aveva disegnato lei stessa circa 20 identikit dei presunti “albanesi”.
Ci ritorna alla mente anche la strage di Erba (11 dicembre 2006), mentre tutti erano convinti della colpa del padre solamente perché “tunisino”. E non si può assolutamente dimenticare la condanna unanime delle due “bestie rumene”, presunti autori dello stupro del parco della Caffarella (14 febbraio 2009) e poi scagionati. O ancora, la reazione della gente di Brembate (26 novembre 2010) e la comparsa di striscioni razzisti contro il “marocchino”, non appena si è parlato di possibile colpevole di origine straniera per l’omicidio della piccola Yara. E poi il rogo della Continassa a Torino (10 novembre 2011): «Erano due zingari, mi hanno violentata», aveva detto la quindicenne prima di far scatenare il raid, soltanto per coprire il suo primo rapporto sessuale alla famiglia. E più di recente a Milano (agosto 2018) due adolescenti hanno denunciato di essere state stuprate da “uomini di pelle nera” e, in entrambi i casi, incalzate dalle domande degli investigatori, hanno poi ammesso di essersi inventate tutto. Le due donne credevano di essere rimaste incinta del rispettivo fidanzato e, temendo l’ira dei genitori, avevano ben pensato di addebitare un’eventuale paternità a un immigrato che avrebbe abusato di loro.
Storie che evidenziano bene il clima nel quale ci troviamo (di nuovo). Quello di un dibattito pubblico inquinato di luoghi comuni e di razzismo che rende “naturale” attribuire al capro espiatorio più semplice da costruire, la responsabilità di reati o anche solo di fatti di cui non ci si vuole assumere la diretta responsabilità. Il problema è che molto spesso noi, queste storie, le rimuoviamo, le dimentichiamo. Eppure si ripetono, quasi uguali, nel tempo, e si fa finta di essere sorpresi come se si trattasse della prima volta. In questo caso di Rescaldina, per fortuna, la vicenda è stata smascherata (sempre per restare in tema carnevalesco) e stroncata sul nascere. Provate a immaginare se il colpo fosse riuscito cosa sarebbe successo. Forse l’ennesima caccia al nero?