di Alessio Bellini
Il secondo articolo del professor Giovanni Sartori, pubblicato dal Corriere della Sera pochi giorni dopo il primo intervento, costituisce una ulteriore e piccata risposta alla meritoria raccolta di firme promossa da un ampio ventaglio di associazioni, sindacati e partiti politici intorno a due proposte di legge di iniziativa popolare.
La prima proposta di legge è volta ad assicurare il diritto di voto alle elezioni amministrative per tutti i cittadini non UE dopo 5 anni di permanenza regolare sul territorio italiano. Il ragionamento è di buon senso: chi vive e perciò lavora regolarmente (ricordiamoci che in Italia il permesso di soggiorno lo si ottiene e mantiene solo dimostrando l’esistenza di un rapporto di lavoro) e perciò paga con continuità le tasse (all’interno di uno Stato dove l’evasione fiscale ha raggiunto i 135 miliardi di euro l’anno) ha tutto il diritto di scegliersi da chi vuole essere amministrato ed ha anche il diritto, sacrosanto, di poter essere eletto.
Intendiamoci: niente di rivoluzionario, solo il rispetto di uno dei principi della democrazia liberale: “no taxation without representation”.
La seconda proposta di legge (chi volesse approfondire può collegarsi al link http://www.litaliasonoanchio.it), mira alla concessione della cittadinanza a tutti i minori nati in Italia da genitori non italiani, a ridurre i tempi per la concessione della cittadinanza anche per i migranti maggiorenni, a fissare un tempo certo entro cui le richieste di cittadinanza debbono essere esaminate (dodici mesi) trascorso il quale si intendono accolte.
Anche qui niente di sconvolgente, almeno per chi scrive: bambini nati qui, che hanno frequentato le scuole in Italia, la cui cerchia di amicizie e di affetti è in Italia, il cui universo di riferimento è l’Italia (con le sue “bellurie” come direbbe Sartori e le sue bruttezze) perché non dovrebbero essere riconosciuti come italiani? Si tratterebbe solo di riconoscere una presenza pacifica e “normale” assicurando i necessari diritti e – va da sé – i conseguenti doveri.
Eppure, di fronte a queste due proposte di legge di assoluto buon senso, si sta scatenando l’inferno. Dibattiti feroci sullo ius soli e lo ius sanguinis (va da sé che è il primo ad essere più sensato: i mostri derivanti dalle ossessioni di contaminazione solo nel nostro Continente hanno provocato milioni di morti), la solita Lega Nord, il solito e recidivo Beppe Grillo ed infine i razzisti colti “a la Sartori”.
“Colti” (od intellettuali che dir si voglia), che rivestono un ruolo importante, e non da ora, nella produzione di un senso comune allarmato e perciò predisposto al recepimento della propaganda razzista ed al successivo “passaggio all’atto”: violenze agite nei confronti di innocenti che hanno la sola colpa di non essere nati in Italia.
In un prezioso libro –Razzisti e solidali. L’immigrazione e le radici sociali dell’intolleranza – che raccoglie gli interventi di studiosi, militanti, politici edito nel lontano 1993 dalla Ediesse, possiamo trovare spunti piuttosto interessanti ed attuali (quanta acqua, verrebbe da dire, è passata sotto i ponti invano).
In quel libro più interventi mettevano in evidenza il passaggio da un razzismo di tipo “biologico” ad un razzismo di tipo nuovo, definito “differenzialista”.
Il neorazzista intelligente – abituato a differenza di tanti progressisti a trarre insegnamenti almeno tattici dalle dure repliche della storia – sostituiva il termine “razza” (ormai tabù) con quello di “cultura”.
Il gioco era fatto: esistono più culture (si concede pure che non sia corretto istituire una gerarchia tra le stesse, salvaguardando l’apparente democraticità del ragionamento). E’ fondamentale tuttavia che non si provveda alla loro “mescolanza” (pena inenarrabili cataclismi) e che perciò si sbarri l’accesso a tutti coloro che sono portatori di culture eccessivamente “altre” e perciò “inassimilabili”: gli immigrati in generale, quelli “islamici” in particolare.
E’ evidente che un ragionamento di questo tipo ha avuto bisogno di una mediazione colta per poter filtrare tra le “masse”. Masse disorientate da progressivi processi di impoverimento già in opera in quegli anni e che trovano attualmente una certa recrudescenza, masse perciò alla disperata ricerca di spiegazioni e anche di colpevoli-capri espiatori da individuare.
Degli intellettuali che già venti anni fa solleticavano gli umori intolleranti degli autoctoni si sottolineava “la disinvoltura con cui essi ripetono, amplificano, elaborano immagini provenienti da un senso comune impaurito ed aggressivo, senza talora rendersi conto di quanto contribuiscano a giustificare discriminazioni assai gravi”.
Si intuiva come “l’efficacia delle ideologie razziste passi attraverso la formulazione di dottrine ‘democratiche’, intellegibili immediatamente perché adattate in anticipo al livello dell’intelligenza delle masse; livello ritenuto assai basso, evidentemente, dai nostri corsivisti”, si svelavano (ben prima di alcuni coraggiosi procuratori dei giorni nostri) gli intenti discriminatori di termini solo apparentemente tecnici “extracomunitario sostituisce il ‘negro’ del razzista biologico e non indica tanto chi è fuori dalla comunità europea, quanto chi viene escluso da una comunità che proprio su questa esclusione si costituisce ..”.
Occupiamoci adesso del secondo articolo sparato dal professor Giovanni Sartori sulla pelle dei migranti, minori e non, che attualmente risiedono nel nostro paese, iniziando appunto dall’incipit:
“Il mio articolo del 26 gennaio scorso ha scatenato parecchi, anzi parecchissimi, consensi e dissensi”.
Tralasciando l’uso improprio di un superlativo (evidentemente ironico, si sa al professore piace scherzare) tra i consensi merita segnalarne uno: quello del sito neonazista www.stormfront.org, già noto per iniziative di alto spessore quali la pubblicazione di lunghi elenchi di ebrei e di “amici degli immigrati” (esposti perciò gli uni e gli altri al pubblico ludibrio e, vedi mai, a qualche energica punizione…) che difendeva le tesi del “politologo Sartori” esposte il 26 gennaio sul corriere della sera.
Dopo aver poi individuato nelle “primavere arabe” un argine (fragile e temporaneo) alle invasioni dei disperati il professore attacca: “..il traffico verso l’Italia dei clandestini (..) riprenderà – non facciamoci illusioni – con numeri sempre crescenti. Lo garantisce la crescita demografica dell’Africa, che è davvero allucinante. Mentre in Europa la popolazione autoctona decresce (il nostro tasso di fertilità è di 1,37, meno di un figlio e mezzo per coppia di genitori) in Africa la crescita è esplosiva”.
E, dopo essersi prodotto in una apocalittica (e totalmente falsa) rappresentazione della condizione dell’infanzia che così suona: “ i figli (..) in Africa vengono messi al lavoro sulla strada nudi o con una braghetta, e lì, sulla strada, si arrangiano, per poi essere subito messi al lavoro appena ne hanno l’età” cita alcune stime elaborate dalle Nazioni Unite e dall’Unione Europea (che il presente autore confessa di non aver reperito) che affermerebbero che “attorno al 2050, tra meno di quarant’anni, l’Egitto dovrebbe avere 114 milioni di abitanti, lo Yemen dovrebbe passare dai 4 milioni di abitanti del 1950 a 100 milioni a fine secolo; e l’Etiopia dagli 83 di oggi a 174; infine la Nigeria dovrebbe addirittura salire, secondo una proiezione, da 150 a 700 milioni di abitanti. Secondo me nessuna di queste previsioni è credibile. Il clima sta cambiando, l’acqua è già insufficiente, e il cibo non può bastare. Ma queste cifre suggeriscono migrazioni e disperati tentativi di fuga di miliardi di persone. Che fare? Posto che il grosso di questi immigrati saranno islamici, in Europa l’esperienza di come accoglierli e inserirli finora non è stata felice”.
In prima battuta si può affermare che Sartori stesso che considera non credibili queste stime ne assume come veritiere le conclusioni: la produzione di un miliardo (!) di abitanti in “sovrannumero” che perciò si avventureranno in migrazioni bibliche verso le nostre coste. Migrazioni di “islamici” e quindi di persone difficilmente “integrabili” perché portatrici di “culture” altre rispetto alla nostra.
Si riprendono quindi temi cari al razzismo differenzialista.
Ora: vi è un nucleo centrale nell’elaborazione di Sartori che definiremo demografico.
Il problema è che Sartori non è un demografo.
Se mi si rompe un tubo del lavandino per evitare l’allagamento della mia abitazione sarà opportuno ricorrere all’opera sapiente di un idraulico. Ma se io, spaventato dall’acqua che sta salendo di livello, telefonassi al mio vecchio professore di italiano e latino al liceo, di sicuro finirei per affogare (e vi assicuro che il professore in questione non era dei peggiori).
Fuor di metafora (greve, concedo) quale “scientificità” ha il discorso di Sartori, pubblicato sul supplemento domenicale del Corriere della Sera?
Nessuna.
Ricorriamo ad un recente lavoro di Hervè Le Bras, Addio alle masse, pubblicato da Eleuthera nel 2008.
Hervè Le Bras, a differenza di Sartori, oltre che essere uno storico è anche un insigne demografo.
Francese, dirige il Laboratoire de demographie historique presso l’Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales di Parigi, directeur de recherche all’Institut national d’etudes demographiques, oltre ad aver fondato e diretto riviste scientifiche pubblicate in Francia e negli Stati Uniti e ad aver pubblicato almeno una quindicina di libri (molti più di quelli pubblicati da Sartori, per intendersi, che peraltro, era uno scienziato politico).
Le Bras può essere l’idraulico di cui abbiamo bisogno per non affogare nel panico da invasione suscitato dall’azione interessata del professor Sartori.
Lo studioso francese ci avvisa: “le grandi paure moderne hanno tutte alla base il concetto di popolazione:esplosione demografica, declino e possibile estinzione di certe popolazioni, invecchiamento, immigrazione, invasione”.
Sartori sguazza perciò in un patrimonio vecchio di secoli da cui riprende argomentazioni trite e ritrite. Argomentazioni alla Spengler del “Declino dell’Occidente” per intendersi.
Merita poi citare questa nota: “E’ un’illusione credere che le previsioni demografiche siano migliori di quelle politiche o economiche e che il loro orizzonte possa essere più ampio. La fecondità, la mortalità, le migrazioni sono sensibili alle vicende incerte dell’economia e della politica, che ne modificano il livello e incidono sugli indici relativi, (..). In realtà, la previsione demografica a lungo termine non ha alcuna funzione operativa. Si limita a rappresentare le paure presenti. Le ingrandisce, come farebbe un microscopio..”.
E riguardo alla capacità predittiva dei tassi di fecondità nel lungo periodo Le Bras, basandosi sui numeri, è definitivo:
“..i tassi di crescita della popolazione in via di sviluppo raggiungono il 2 per cento nel 1950 e continuano ad aumentare fino al 1965, anno in cui si sfiora il 2,5 per cento. In quella stessa data, il tasso di fecondità nella maggior parte dei paesi sviluppati cala(..). L’esplosione di una parte è esaltata dall’implosione dell’altra. Questi aspetti demografici degli anni Settanta sono incontestabili(..). L’errore è stato però quello di pensare che restassero invariati sul lungo periodo. Oggi sono profondamente cambiati tre aspetti essenziali: il tasso di fecondità cala ed è calato rapidamente in tutti i grandi paesi del Sud, la crescita nei paesi del Nord è continuata, dopo una generazione, nonostante una fecondità inferiore ai 2,1 figli per donna, e, infine, la distinzione tra paesi sviluppati e paesi in via di sviluppo, espressa dall’eufemismo Nord-Sud del mondo, non è più pertinente”.
Nel proseguo dell’opera le Bras si mostra interessato, come Sartori, alla situazione specifica del continente Africa giungendo a conclusioni diametralmente opposte a quelle del professore fiorentino: “..il Kenya, che deteneva il record delle nascite nel 1975, con una media di 8 figli per donna, è attualmente sceso al 4,2 (..). Rimangono pochi paesi nei quali la fecondità tarda a calare, ma si tratta, con l’eccezione della Nigeria, di nazioni piccole e piuttosto isolate, come il Nepal, lo Zambia o il Guatemala”.
Non conosco il numero di cittadini nepalesi attualmente presenti in Italia, ma sono pressoché sicuro che, anche prendendo per buone amenità pseudo-scientifiche come la famigerata “soglia di tolleranza” a cui Sartori più volte allude, nei prossimi secoli potremo accogliere molti cittadini nepalesi (o guatemaltechi) senza che questo possa provocare insostenibili sconvolgimenti.
La verità è che il discorso di Sartori non ha niente di scientifico.
Sartori si limita ad organizzare un discorso neorazzista mescolando pregiudizi e stereotipi da bar con statistiche citate a caso, senza alcun approfondimento e rigore, tanto che un autodidatta come il sottoscritto, che non ha certo i titoli dell’illustre opinionista fiorentino, può facilmente smentirlo nel giro di un pomeriggio.
Ora.
La domanda che possiamo porci è: a chi giova tutto questo?
Di certo non ai cittadini migranti che vivono e lavorano nel nostro paese. Uomini e donne che non hanno né maggiori pregi né maggiori difetti rispetto a noi indigeni. Onesti nella stragrande maggioranza dei casi, come noi indigeni. Sottoposti alla pesante crisi economica che li costringe, come noi indigeni, ad ogni tipo di peripezia per assicurarsi di che vivere.
Il discorso di Sartori giova, al contrario, a tutti quelli che intendono mantenere i migranti in una condizione a statuto speciale: subordinata, segnata dalla precarietà e perciò sottoposta al ricatto.
Invece di interessarsi delle disuguaglianze economiche (per non parlare di quelle politiche) che passano tra stranieri ed autoctoni (livelli di reddito infinitamente più bassi, come anche una recente ricerca dell’Istat mostrava) ci si concentra sulle presunte disuguaglianze “culturali” efficaci sostituti di quelle “biologiche” e “razziali”.
Ma l’obiettivo è lo stesso, sempre uguale a se stesso: categorizzare l’umanità, gerarchizzare le appartenenze assumendole come eterne, inchiodare gli individui ad un destino di permanente ed ingiustificata subordinazione.
A tutto questo bisogna reagire.