Ha dell’incredibile la storia di C., cinquantenne, da trent’anni residente a Pomezia, dove lavora come carrozziere. Una moglie, tre figli. Il maggiorenne ha la cittadinanza italiana, gli altri due aspettano di compiere 18 anni. Si perchè C. è di cittadinanza algerina.
Per questioni legate alla droga, ha passato cinque anni in carcere. Poi, il giudice di sorveglianza lo ha etichettato come “pericoloso”, ritirandogli il permesso di soggiorno. Per questo, i carabinieri sono andati a prenderlo a casa e lo hanno portato nel Cie di Bari, in attesa dell’espulsione verso il “suo” paese, che secondo la legge italiana sarebbe l’Algeria.
Certo è un po difficile pensare che una persona possa considerare casa un posto da dove manca da trent’anni, e dove non ha più affetti e legami. Ma sembra che non sempre la legge e il buon senso vadano d’accordo.
La frase di C., che da un paio di giorni rimbalza sui media che si stanno occupando del caso, ben esplicita la situazione paradossale in cui si trova: “Senato’, m’hanno detto che mi riportano nel mio paese. Benissimo, allora fateme uscire da qui. Perché io sto già nel mio paese. Ho sbagliato, questo si, ho pagato ma non cacciatemi: io sono italiano”.
Una storia che Luigi Manconi, senatore del Pd e presidente della commissione Diritti Umani di Palazzo Madama, definisce “la prova del paradosso e della pericolosità che queste strutture possono produrre”.