I datori di lavoro possono vietare alle loro dipendenti di indossare il velo: questo il dato preoccupante che emerge dalla sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, che si è espressa sui ricorsi presentati due donne musulmane, in Belgio e in Francia: le donne hanno perso il posto di lavoro proprio perché indossavano il velo; qui i casi in dettaglio.
I datori di lavoro, a cui i casi si riferiscono, vietano ai propri dipendenti di indossare segni visibili della propria fede religiosa. La restrizione fa parte di una norma interna, che impone ai lavoratori di astenersi dal mostrare qualsiasi segno del proprio credo, sia questo di tipo politico, religioso o filosofico. La norma dovrebbe servire a tutelare la neutralità degli enti lavorativi e quindi a non turbare la sensibilità dei clienti. L’espressione della propria personalità in questo senso sarebbe legittima perciò solo nel caso di lavori di back office.
Secondo la Corte europea si tratterebbe di una discriminazione con finalità legittima.
Al contrario, la sentenza potrebbe rappresentare un precedente pericoloso, che non solo avalla la discriminazione delle donne musulmane sul posto di lavoro, ma contribuisce a legittimare l’islamofobia già diffusa. Ci associamo quindi al comunicato diffuso dall’ENAR (European Network Against Racism) insieme ad altre organizzazioni antirazziste, di cui riportiamo il testo tradotto in italiano.
La decisione della Corte Europea di Giustizia sul divieto di indossare il velo sul posto di lavoro legittima la discriminazione delle donne musulmane
Bruxelles, 14 marzo 2017 – La decisione della Corte Europea di Giustizia che sostiene il divieto sul velo imposto dal settore di lavoro privato compromette seriamente il diritto all’uguaglianza e alla non discriminazione delle donne, un gruppo di organizzazioni antirazziste ha affermato oggi.[1]
La Corte si è espressa su due casi presentati da lavoratrici dipendenti, licenziate perché indossavano il velo, affermando che regole interne che proibiscono di indossare visibili segni politici, filosofici o religiosi non costituiscono discriminazione diretta.
“Questa è una decisione estremamente preoccupante perché vieta di fatto a tutte le donne musulmane di indossare il velo sul luogo di lavoro”, ha detto Amel Yacef, presidente dell’ENAR. “Questo non è altro che un divieto islamico che si applica solo alle donne che lavorano nel settore privato, esclusivamente per come decidono di vestirsi sulla base della loro religione”.
Questa decisione costringe le donne musulmane che indossano il velo, i sikh che indossano il turbante e gli ebrei che indossano la kippa a dover scegliere tra la loro espressione religiosa, che è un diritto fondamentale, e il loro diritto di accesso al mercato del lavoro.
Proibire ai dipendenti di indossare segni visibili della loro religione significa trattare meno favorevolmente quei dipendenti che invece lo fanno. Questa decisione distingue tra religioni che comprendono espressioni visibili del loro credo e religioni che non ne hanno. Di conseguenza, avrà un impatto anche su altri gruppi che esprimono il loro credo religioso attraverso l’abbigliamento.
La Corte afferma che il rifiuto di permettere a un dipendente di indossare il velo si basa sulla volontà da parte del datore di lavoro privato di apparire “neutrale” di fronte ai clienti in ambito religioso. Il fatto che la Corte consideri questa interpretazione dell’argomento della neutralità come un obiettivo legittimo è inaccettabile. Legittima, infatti, il fatto che datori di lavoro privati diano priorità ai desideri dei loro clienti rispetto ai diritti fondamentali dei loro dipendenti e costringe i dipendenti che manifestano la loro fede in modo visibile a svolgere esclusivamente lavori d’ufficio.
Con questa sentenza, la Corte Europea di Giustizia ignora palesemente il contesto sociale che le donne musulmane devono affrontare in Europa. Le donne musulmane incontrano già notevoli ostacoli nel trovare e mantenere un posto di lavoro, e questa decisione non fa altro che peggiorare le cose, dando ai datori di lavoro l’autorizzazione a discriminare.
Per maggiori informazioni: Georgina Siklossy, Senior Communication and Press Officer, Tel: +32 (0)2 229 35 70 – Mobile: +32 (0)473 490 531 – Email: georgina@enar-eu.org – Web: www.enar-eu.org
[1] European Network Against Racism (ENAR), Federation of European Muslim Youth and Student Organisations (FEMYSO), European Forum of Muslim Women (EFOMW), KARAMAH EU – Muslim Women Lawyers for Human Rights, Collective Against Islamophobia in Belgium, collective Against Islamophobia in France (CCIF), Boeh! – Baas Over Eigen Hoofd (Belgium), Stichting Platform Islamitische Organisaties Rijnmond – SPIOR (Netherlands), Muslim Human Rights Committee Sweden, Al Nisa (Netherlands).