Malgrado i contorni ancora confusi dell’ennesima strage nelle acque prospicienti Lampedusa, nei pressi dell’isolotto disabitato di Lampione, a ovest dell’isola, primo lembo di terra italiano di fronte ai porti tunisini di Mahdia e Monastir, appare ormai certo come il dispositivo di controllo e di salvataggio che prima era dispiegato nelle acque a sud di Lampedusa, anche a 60-80 miglia a sud dell’isola, operi a stretto ridosso delle isole Pelagie. Si consente così, per un verso, un avvicinamento alle coste italiane più facile dei mezzi, spesso anche pescherecci, che riescono ad eludere la sorveglianza delle unità libiche e tunisine, ma si impiega anche più tempo per raggiungere ( e salvare) in un numero molto minore di casi, e con tempi più lunghi, i migranti che si trovano ancora in acque internazionali, magari in procinto di affondare nel corso della loro traversata verso la fortezza Europa.
Secondo un comunicato dell’ACNUR del 30 giugno scorso la maggior parte delle imbarcazioni che partono dalla Libia vengono ormai riprese dai mezzi libici che in base ai vigenti protocolli operativi operano anche in collaborazione con mezzi militari maltesi ed italiani. E si hanno pure notizie di imbarcazioni tunisine o algerine riprese dai mezzi militari di quei paesi e ricondotti nei porti di partenza. Quanto avviene è stato confermato indirettamente anche dal ministro dell’interno italiano Cancellieri, secondo la quale ogni stato rivierasco del Mediterraneo deve sorvegliare le proprie acque territoriali per contrastare l’immigrazione clandestina in Europa. E su questi profili operativi sembrano ancora vigenti gli accordi di cooperazione interforze tra le autorità libiche, tunisine, algerine e quelle italiane. Il problema rimane dunque capire se per il ministro dell’interno italiano, che non manca mai di esprimere il suo rammarico per le vittime, le autorità militari di questi paesi garantiscano il rispetto dei diritti umani ai migranti fermati in acque internazionali e ricondotti nei porti di partenza. Diversi report di importanti agenzie internazionali confermano abusi sempre più gravi da parte di forze militari e di milizie varie a danno dei migranti in transito in Libia. In Tunisia ed Algeria non si registrano violenze tanto gravi, ma dopo il primo tentativo di fuga, qualunque altro imbarco per un viaggio verso l’Europa può essere variamente sanzionato, ed il rimpatrio collettivo non lascia nessuna possibilità di richiedere una qualche forma di protezione internazionale, o di avvalersi della protezione umanitaria una volta raggiunto il territorio italiano.
Amnesty International ha denunciato uno scarso impegno dell’Unione Europea per evitare che queste tragedie dell’immigrazione continuino a ripetersi. In realtà l’Unione Europea ha bloccato qualunque direttiva in materia di ingresso legale per ricerca di lavoro e si sta impegnando da anni soltanto per armare mezzi da guerra da impegnare nelle missioni di FRONTEX nella “guerra contro l’immigrazione illegale”, una guerra che non tocca gli interessi dei trafficanti, ma si rivolge solo contro i corpi e le vite dei migranti. Occorre aprire canali legali di ingresso e salvare appena possibile, subito dopo gli avvistamenti, i migranti in mare su imbarcazioni che non garantiscono la navigazione in condizioni di sicurezza, senza attendere il raggiungimento delle acque territoriali, la soluzione di questioni diplomatiche o l’arrivo dei mezzi militari partiti dai paesi di transito, come la Libia Bisogna fare chiarezza, per altri versi, sulla netta distinzio- ne tra i doveri di salvataggio e di accoglienza e le politiche di gestione dell’immigrazione.
Quali che siano le scelte in tema di immigrazione e protezione internazionale o umanitaria, l’obbligo di salvare le vite umane, l’indefettibilità del soccorso in mare, il rispetto dei diritti fondamentali, il dovere di accogliere dignitosamente le persone, non devono più essere messi in discussione in nome di una
astratta esigenza di difendere le frontiere nazionali, frontiere assolutamente permeabili quando si tratta di soddisfare la domanda di lavoro irregolare per assicurare la competitività di interi settori del mercato, ad esempio in agricoltura, o per soddisfare nuove esigenze di welfare, come nel caso delle lavoratrici domestiche e delle badanti.
In guerra e nella guerra contro i migranti irregolari, la verità è la prima vittima, comunque sarebbe utile rompere il segreto di stato che circonda queste vicende, anche quando non è più giustificato dalle prime indagini di polizia, per comprendere perchè i migranti arrivano ancora dalla Tunisia e dalla Libia a Lampedusa ad ondate successive, con aperture e chiusure continue, con modalità diverse di esercizio della libertà di fuga loro consentita( a caro prezzo) .
E per quelli che riescono a completare la traversata, se provengono da paesi come la Tunisia, l’Egitto o l’Algeria, dopo il salvataggio, e qualche audizione di polizia per individuare gli “scafisti”, scelti spesso a caso nel mucchio dei migranti, un respingimento immediato, con riconoscimenti che non comportano identificazione individuale da parte dei consoli e dunque assumono i caratteri di un rimpatrio forzato collettivo, vietato dalla Convenzione Europea a salvaguardia dei diritti dell’Uomo, e dal Regolamento Frontiere Schengen n. 562 del 2006, che impongono formalità assai precise e diritti di difesa effettivi per tutti coloro che sono sottoposti alle procedure di respingimento con accompagnamento forzato. Siamo davvero curiosi di vedere adesso quale trattamento sarà riservato ai superstiti di questa ultima strage quando non saranno più ritenuti utili per le indagini di polizia, appena dopo che si saranno individuati gli immancabili scafisti. C’è da aspettarsi anche per loro un periodo di detenzione in un centro di accoglienza trasformato in centro di identificazione ed espulsione e quindi la loro riammissione nel paese di origine. E mai che una indagine penale si rivolga ai casi di omissione di soccorso o alle pratiche di allontanamento forzato, oppure agli abusi nei centri di detenzione informale, creati per periodi determinati, in modo da fare scomparire i migranti subito dopo lo sbarco, centri inaccessibili pure per quelle organizzazioni ( OIM, ACNUR, Save The Children) che collaborano con il ministero dell’interno nell’ambito del progetto Praesidium.
La tensostruttura di Porto Empedocle, un capannone all’interno della zona portuale, off-limits per tutti, compresi gli avvocati, che dallo scorso anno viene utilizzato come centro di detenzione di migranti in transito provenienti da Lampedusa. Il centro di prima accoglienza di Pozzallo,in provincia di Ragusa, altro capannone all’interno del porto, continua a funzionare come centro di identificazione ed espulsione temporaneo, ma non ne ha lo status e non sono previste convalide da parte dei magistrati o attività di difesa. Ci si avvale dello status di zona militare dei porti per isolare i migranti ed impedire loro per giorni qualsiasi possibilità di comunicazione con l’esterno. E poi il console tunisino, o un suo delegato, effettua riconoscimenti sommari prima dell’imbarco dall’aeroporto di Palermo verso Tunisi. Magari di quelle stesse persone che sono state salvate in mare pochi giorni prima, scampando ad una morte certa. Ma stiano pur sicuri coloro che cercano di contrastare in questo modo la cd. immigrazione clandestina. Ci riproveranno e ci riproveranno ancora, anche a costo della vita.
E’ ormai improrogabile una svolta chiara in politica estera, senza delegare i controlli delle frontiere a stati che non applicano effettivamente,come il Marocco e la Tunisia, o non vi hanno neppure aderito,come la Libia la Convenzione di Ginevra del 1951 sulla protezione dei rifugiati. Non dovranno più concludersi accordi bilaterali per sostenere finanziariamente e tecnicamente la Libia, o altri paesi di transito, che non garantiscono con l’operato dei loro consoli il rispetto dei diritti umani nel “controllo dei flussi di immigrazione clandestina”. E la stessa richiesta si può estendere agli accordi tra Italia ed Egitto o alle intese sulla riammissione stipulate nel 1999 tra Italia e Grecia, per citare solo alcuni dei casi più eclatanti di accordi internazionali che comportano ancora oggi gravi violazioni dei diritti fondamentali della persona. E spesso anche un costo ancora più elevato in termini di vite umane.
Fulvio Vassallo Paleologo
Università di Palermo