“Immigrazione: rimpatri e stop al business” è il titolo del capitolo del “Contratto di governo” sottoscritto dai leader di Lega e Movimento 5 Stelle che sintetizza perfettamente le posizioni presentate in campagna elettorale dalle due forze politiche: “via gli irregolari”, la Lega, “Stop ai taxi del mare”, M5S. Le tre pagine del capitolo, così come alcuni accenni al pre-requisito dell’”italianità” per l’erogazione di servizi e prestazioni di welfare nominati in altri paragrafi del “Contratto”, annunciano misure che contrastano con il principio di uguaglianza e il diritto di asilo garantiti dalla nostra Costituzione e in alcuni casi ricordano misure proposte o adottate senza successo o efficacia da governi precedenti.
Vale innanzitutto la pena di segnalare la totale mancanza di proposte politiche in positivo che non si limitino a cercare di ridimensionare il fenomeno migratorio verso l’Italia e che intendano invece governarlo. Spesso si discute della scarsa formazione e dell’inserimento nei gradini più bassi del mercato del lavoro della maggioranza degli immigrati in Italia e si segnala la differenza rispetto ad altri Paesi: ricorrono ad esempio le polemiche con la Germania che avrebbe accolto i rifugiati siriani laureati. Altrettanto spesso si segnala il cruciale apporto della popolazione immigrata al bilancio demografico. Dimenticare questi aspetti, non nominarli e guardare all’immigrazione solo come a un “problema” da affrontare con interventi finalizzati a ridurre i flussi migratori, di lotta alla criminalità e al terrorismo, di contrasto al potenziale malaffare generato dall’uso sbagliato di risorse pubbliche investite in accoglienza, è semplicemente sbagliato. Chi lo fa, finge di non sapere che il fenomeno dell’immigrazione è strutturale e che, proprio per questo, servono politiche di inclusione efficaci.
L’attitudine prevalente verso il fenomeno è di chiusura e miopia e su alcuni grandi temi non si va oltre gli slogan. Stipulare accordi per i rimpatri con i Paesi terzi è qualcosa che i governi europei e italiani cercano di fare da anni con scarso successo. Nel testo del “Contratto” si parla dei costi da sopportare per le casse dello Stato che “spesso sono gestiti con poca trasparenza e sono permeabili “alle infiltrazioni della criminalità organizzata”. Ora, o questa frase si aggiunge in ciascun paragrafo nel quale si parla di spesa pubblica e di appalti di servizi pubblici, oppure si tratta di sbandierare (in malafede) l’idea che siamo di fronte a un business dell’accoglienza che funziona in modo diverso dal resto, “strutturalmente” votato al malaffare. Il “Contratto” sembra sottintendere la seconda opzione.
Ma veniamo alle proposte contenute nel testo. Positiva l’idea di non vendere armi ai Paesi in guerra da dove fuggono i potenziali richiedenti asilo. Peccato che l’ipotesi sia in contrasto con il rilancio dell’apparato militare-industriale previsto nel capitolo dedicato alla Difesa: la tutela dell’industria italiana che opera in questo comparto -e esporta in diversi di questi Paesi– è dichiarato “imprescindibile”.
L’Europa
La parte che segnala l’urgenza di rivedere il Regolamento di Dublino, in maniera da ripartire equamente il numero di richiedenti asilo sul territorio europeo, grazie alla sua vaghezza, sarebbe in teoria condivisibile. Un tentativo non vincolante in questa direzione era stato fatto con l’ipotesi di ricollocamento di 120mila profughi dopo la tragica estate del 2015. Il tentativo è fallito per la mancata partecipazione e adesione di diversi Paesi, a partire da quelli del cosiddetto Gruppo di Bratislava, cui gli estensori del Contratto di governo guardano con una particolare simpatia. La contraddizione è clamorosa: si cerca più condivisione e solidarietà europea su una materia e al contempo si guarda con interesse a quei governi che hanno fatto della sfida all’Europa in materia di immigrazione e Stato di diritto (Ungheria e Polonia) un loro cavallo di battaglia. Non si può volere più Europa e meno Europa allo stesso momento; non si può essere per la condivisione e simpatizzare per quei governi che in nome della purezza culturale si rifiutano di condividere l’accoglienza di persone in fuga dalla guerra – nel 2015, come si ricorderà, si trattava in larga parte di profughi siriani.
L’incostituzionalità delle misure proposte
Nel testo si fa spesso riferimento ai cittadini italiani come “primi” o unici beneficiari di alcune prestazioni di welfare (la gratuità degli asili, il reddito di cittadinanza). L’idea di dare priorità o esclusività agli italiani, come bene ha evidenziato Asgi in una sua nota, confligge con il diritto europeo ed escluderebbe dalle prestazioni persino quei cittadini europei che godono del diritto di soggiorno permanente, come gli italiani negli altri Paesi dell’Unione. La discriminazione sulla base della nazionalità di cittadini stabilmente residenti nell’erogazione dei servizi è anche in contrasto con l’articolo 3 della Costituzione. Perché un residente che lavora e paga le tasse al Comune di residenza (e allo Stato) dovrebbe pagare la retta all’asilo e un altro nella stessa identica condizione ma di nazionalità italiana no? Il paragrafo relativo ai luoghi di culto, evidentemente scritto pensando alle moschee, è pieno di potenziali passi falsi dal punto di vista della libertà di culto sancita dalla Costituzione. Proprio relativamente alle moschee si parla di chiudere quelle irregolari e, parallelamente, di sottoporre a maggiori limiti l’apertura di nuove. Spesso capita che le moschee irregolari nascano proprio in seguito alla difficoltà di avere spazi per il culto adeguati e regolari. Una contraddizione che non sembra preoccupare gli estensori del contratto.
Che dire poi dell’idea di individuare fattispecie di reato che portino all’immediata espulsione dei richiedenti asilo? Di quali reati parliamo? Di terrorismo o di furto? L’idea di poter espellere qualcuno che sostiene di essere fuggito dal proprio Paese perché in pericolo – specie se in quel Paese è in vigore la pena di morte – è contro il nostro ordinamento.
Respingimenti, espulsioni, Paesi terzi
In generale il “Contratto” insiste sulla necessità di aumentare i respingimenti e ridimensionare l’accoglienza, identificata a torto con il malaffare (un buon escamotage per adottare politiche discriminatorie presentandole come misure di contrasto della corruzione). Le proposte sono vaghe e richiamano molte delle scelte e delle ipotesi di lavoro fatte dal ministro Minniti: dall’annuncio della creazione di un Centro di identificazione ed espulsione in ogni regione all’annuncio di un maggior impegno nell’esecuzione dei provvedimenti di rimpatrio.
L’idea che l’ammissibilità delle richieste di protezione internazionale possa avvenire nei Paesi di origine è stata avanzata più volte in passato, ma è difficilmente praticabile: se fuggo da una guerra, da una persecuzione, prima fuggirò e solo dopo chiederò rifugio. L’idea di dover richiedere protezione nel Paese di origine e poi aspettare l’esito metterebbe in ulteriore pericolo persone già in pericolo. Quanto all’ipotesi di accogliere le domande nei Paesi di transito, l’esperimento è stato tentato in Libia con i risultati che molte inchieste hanno documentato.
Nel Contratto si parla anche di accelerare le espulsioni di cittadini stranieri privi di permesso di soggiorno e della necessità di trattenerli per tutto il periodo necessario all’iter dell’espulsione in centri regionali finalizzati al rimpatrio. Ci si preparerebbe dunque a creare enormi centri di detenzione ed espulsione e a prevedere un nuovo prolungamento del periodo di permanenza nei centri (sino a 18 mesi). Peccato che i dati ufficiali disponibili dimostrino che esso è del tutto irrilevante ai fini dell’esecuzione dell’espulsione: se le persone non sono identificate nei primi tre mesi di detenzione, difficile che questo possa avvenire dopo ed è proprio questo il motivo che portò il Parlamento a ridurre il periodo di detenzione a un massimo di 90 giorni nel corso della scorsa Legislatura. Quanto alla creazione di un CPR in ogni regione, i precedenti ci lasciano buone speranze: fu un obiettivo annunciato dall’ex ministro Maroni nel 2011 e poi di nuovo dal ministro Minniti nel gennaio 2017, per fortuna ad oggi ancora lontano dall’essere raggiunto.