Segnaliamo qui di seguito un interessante articolo di Giacomo Buoncompagni, pubblicato il 4 gennaio sul sito Social News. L’autore, nell’analisi della comunicazione sul fenomeno migratorio attraverso i social media, fa rilevare che “troppo spesso le notizie e le immagini sui migranti diffuse dai mass media e in Rete, non solo non rendono giustizia del profilo demografico, economico e sociale del fenomeno migratorio, ma contribuiscono ad alimentare quei processi di categorizzazione, di etichettamento e di insicurezza sociale da cui scaturiscono stereotipi e discriminazioni nei confronti dell’altro (Corte, 2014). È così che l’identità dell’uomo migrante si configura solo ed esclusivamente attraverso gli occhi del paese di immigrazione: il migrante è un “non-nazionale”, è altro rispetto al tutto, è un non-soggetto sociale“. L’articolo si conclude con l’auspicio di poter disintossicare il web dai fenomeni di hate speech, e di educarci ai media e ad una “sensibilità interculturale.
Comunicare l’immigrazione: il valore dell’etica e della competenza interculturale-digitale
Il nostro comportamento all’interno dei social media mostra a noi tutti che, come le scienze comportamentali dimostrano nelle più recenti ricerche, siamo più mossi dalle emozioni che dalla ragione, che preferiamo mantenere intatti nostri pregiudizi anche se ciò a cui crediamo si dimostra poi totalmente errato, che siamo sempre meno disponibili al confronto e abili haters davanti ad uno schermo. In poche parole: ascoltiamo e comunichiamo non per capire, ma solamente per rispondere e si entra in contatto con l’Altro in quanto “diverso”. Alcuni sociologi, analizzando la dimensione comunitaria nel nuovo scenario digitale, riconoscono la nascita di nuove forme di legami che definiscono “neotribali”. Le modalità per sentirsi vicino ad una persona ruotano esclusivamente attorno ad uno stato emozionale comune: la simpatia. Tali formazioni chiuse, autoreferenziali, non hanno progetti comuni, non diffondono conoscenza, non sono classificabili come “intelligenze collettive e connettive”, ciò che le muove è il semplice desiderio di sentirsi parte di un gruppo dove tutti la pensano allo stesso modo; dunque non c’è confronto, ognuno vive tranquillo con le proprie verità nella propria “bolla”.
L’utilizzo inconsapevole dei social in questo senso, rischia di essere utilizzato per costruire strategie difensive per deviare dall’eticità, per sfuggire al processo di negoziazione e condivisione necessario (per sua definizione) in un processo comunicativo-relazionale.
Hate speech: esempio di comunicazione violenta
Paul Ricoeur, filosofo della comunicazione, affermava come fosse necessario individuare sempre una “situazione limite” in ogni cosa e cioè capire quando l’utilizzo dei social, in questo caso, nutre o danneggia una società. Ogni giorno ci imbattiamo anche per sbaglio in espressioni verbali violente in Rete (hate speech). L’odio verbale online rappresenta una realtà che non si limita solamente alla dimensione virtuale, ma ha effetti concreti anche nella vita offline. I social network rischiano sempre più di trasformarsi in ambienti tossici, in campi di battaglia, “far west virtuali” dove domina il conflitto, dimenticando cosi l’esistenza di un’etica, di regole conversazionali, nei processi comunicativi online ed offline. L’odio sul web nasce dalla realtà e lì poi ritorna.