La scorsa settimana, alcuni quotidiani hanno riportato due notizie molto simili fra loro, ma provenienti da due frontiere del mondo differenti. La stampa mainstream non ha dato molta visibilità ai due casi. Si tratta di due storie terribili che parlano di morte, disperazione, di bambini, di speranze infrante e di colpevolezza. Una storia lungo la rotta che porta alle Canarie, e l’altra lungo quella che conduce a Samos. Geograficamente due luoghi molto distanti, due isole, due porte per l’Europa. Lungo queste rotte sono morti due bambini e con loro tutte le speranze di una intera famiglia di raggiungere l’Europa.
Due tragedie che hanno preceduto quella del piccolo Joseph, ma che sono state rese note dopo.
Mentre l’Europa guardava in loop le immagini del video girato dai soccorritori di Open Arms della mamma disperata del piccolo Joseph, sentiva ripetere quelle grida strazianti di dolore, e scavava in modo anche macabro sino alla sua sepoltura, giunge il tweet di Azzurra Barbuto, giornalista di Libero, scrittrice e autrice di programmi televisivi. «Corriere della Sera. “Ho perso il mio piccolo”, l’urlo della madre” – scrive la Barbuto su Twitter -. Hai perso il tuo piccolo, 6 mesi, perché lo hai buttato su un gommone con un centinaio e più di persone ammassate una sull’altra, in autunno inoltrato, con il freddo e il mare grosso». Malgrado poi abbia ritrattato, la Barbuto continua ad affermare che la responsabilità di quella morte è dei genitori e che, ammesso che volessero scappare da una guerra, avrebbero dovuto rifugiarsi nel primo Paese più sicuro che si trova vicino al luogo d’origine e non affrontare un viaggio pericoloso in mare («Quel neonato non ha scelto di salire sul gommone. Lo ha caricato chi avrebbe dovuto tutelarlo. Morire a 6 mesi in mare aperto, congelato, affogato, con l’acqua nei polmoni, è terribile. Chi incoraggia il traffico di esseri umani è responsabile di queste tragedie. I sadici siete voi»). Affermazioni gravissime.
Ma sarebbe altrettanto un grave errore attribuire questa ennesima tragedia a un ritardo nel soccorso medico perché le responsabilità di queste, come delle altre innumerevoli morti in mare, vanno ricercate altrove: nella medesima causa, ovvero nella mancanza di un effettivo piano istituzionale di soccorsi nel Mediterraneo e nella contemporanea criminalizzazione delle associazioni che operano in mare.
Le Organizzazioni non governative e quelle internazionali denunciano da tempo che per i migranti non esiste alcuna missione di ricerca e soccorso comune e, con il pretesto del Covid, si ostacolano coloro che operano in mare, camuffando tali decisioni come politiche di tutela della salute pubblica. ”La perdita di vite umane nel Mediterraneo è una manifestazione dell’incapacità degli stati di intraprendere un’azione decisiva per dispiegare un sistema di ricerca e soccorso quanto mai necessario in quella che è la rotta più mortale del mondo”, ha dichiarato Federico Soda, capo missione dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni Libia, che ha aggiunto: “Migliaia di persone vulnerabili continuano pagare il prezzo dell’inazione, sia in mare sia sulla terraferma“. Secondo l’Oim, quest’anno sono almeno 900 le persone che sono annegate nel Mediterraneo nel tentativo di raggiungere le coste europee, alcune a causa di ritardi nei soccorsi. Più di 11.000 altri migranti sono stati riportati in Libia.
Eppure si aprono campagne mediatiche che tendono a colpevolizzare le persone migranti piuttosto che occuparsi dei veri colpevoli di queste stragi. Per gli altri due bambini morti prima di Joseph, inghiottiti anche loro dalle acque nelle quali tutti i diritti, anche quelli più elementari naufragano, la reazione sebbene meno enfatizzata dal punto di vista mediatico, non è meno sorprendente.
Era metà ottobre, quando Doudou Faye, quattordicenne senegalese, è deceduto su una imbarcazione diretta verso le isole Canarie. I suoi compagni di viaggio hanno raccontato che si è ammalato, è morto e che ne hanno gettato il cadavere nell’oceano. Mentre lo scorso 8 novembre, a morire è stato un bambino di 6 anni, mentre era in viaggio con altri 24 migranti dalla Turchia verso la Grecia.
Queste due morti sono delle non-notizie se paragonate al clamore mediatico fatto attorno alla morte del piccolo Joseph. Eppure fa più rumore l’arresto dei due padri, giudicati “colpevoli” della morte dei propri figli.
Mamadou Lamine Faye si era rivolto a una organizzazione di trafficanti e aveva pagato circa 380 euro a uno scafista che doveva portare Doudou in Spagna “clandestinamente”. Poi un altro trafficante avrebbe dovuto trasferirlo in Italia dove il ragazzo doveva diventare un calciatore. L’uomo è stato arrestato dalla Polizia senegalese e accusato di “omicidio involontario e complicità nel traffico di emigranti”. E con l’accusa di “aver messo in pericolo la vita altrui” anche il migrante afghano è stato arrestato dalla Polizia greca e rischia fino a dieci anni di carcere per aver “causato” la morte di suo figlio di 6 anni annegato nel mar Egeo.
Si tratta di una incriminazione che non ha precedenti in casi come questo, né in Senegal né in Grecia.
Tuttavia, c’è da dire che il governo senegalese, a differenza di quello greco che risulta non direttamente coinvolto nelle partenze di migranti, da anni si preoccupa del fenomeno e tenta di far capire soprattutto ai giovani e alle loro famiglie che è una scelta sbagliata, che affidarsi alle organizzazioni criminali di trafficanti è a dir poco imprudente e che quasi sempre le speranze di realizzazione sociale ed economica restano deluse. Almeno 480 persone sono morte o sono risultate disperse in seguito a naufragi avvenuti al largo delle coste del Senegal a partire da sabato 24 ottobre. Ne ha dato notizia l’ong Alarm Phone, che segnala il crescente utilizzo della cosiddetta “rotta atlantica”, quel tratto di mare che dal Senegal spinge i migranti a intraprendere viaggi rischiosi per raggiungere le Isole Canarie, territorio spagnolo e dunque europeo. Secondo Alarm Phone, i naufragi noti sono stati cinque.
Diverse (ma evidentemente inefficaci) politiche sono state avviate dallo Stato del Senegal e sostenute dall’Unione Europea (anche con il sostegno finanziario cospicuo di Frontex) per combattere le migrazioni irregolari. Sull’altro fronte, le fughe dalla Turchia mietono altre vittime, mentre sulle coste dell’Egeo la tensione sale a dismisura. Anche perché il Governo turco, visto lo stop dei contributi dall’Unione Europea, ha riaperto i confini con la Grecia, dando il via a una serie di viaggi della speranza.
Noi ci chiediamo, ora, per quale motivo – di fronte alla tragedia immane di una madre o di un padre che perdono un figlio – non si possa sospendere il giudizio e non si possa almeno tacere, se non fosse altro in nome del rispetto dei bimbi defunti e del dolore di una famiglia distrutta.
Quando un figlio ti muore, tra le braccia o lontano che sia, ti cade letteralmente il mondo addosso. Le responsabilità sono ovviamente da cercare altrove, innanzitutto nelle politiche europee e nazionali di blocco delle migrazioni “legali”. E anche queste misure messe in atto dalla Polizia, quasi a voler fungere da deterrente, non sono di certo la risposta adeguata al problema. Giocare con i sensi di colpa e “punire” è un subdolo scaricabarile che governi inetti da un lato, e una stampa di un certo tipo dall’altro, mettono in campo quando non sanno come giustificare la loro stessa responsabilità.