di Annamaria Rivera
Vi sono questioni rispetto alle quali il nostro Paese sembra condannato a un eterno ritorno, a una storia indefinitamente ripetibile, quindi non più storia. E’ il caso della gran parte dei temi riguardanti la condizione, lo status e i diritti dei migranti, soprattutto la cittadinanza e il diritto di voto. E’ quasi un ventennio che queste due questioni tornano ciclicamente a riemergere nel dibattito pubblico, per poi eclissarsi senza alcun risultato. E ad ogni resurrezione assistiamo a un canovaccio pressoché identico, con gli stessi personaggi-tipo, le medesime polemiche e obiezioni. Senza che alcunché si sia determinato non solo in termini di risultati, ma anche di progresso nel dibattito, di approfondimento teorico e politico delle questioni in gioco. Di questo teatro dell’eterno ritorno, ciò che più sorprende è che la gran parte dei personaggi in scena si mostrino immemori di quel che c’è stato prima, quindi inconsapevoli di recitare una parte vecchia di un ventennio.
Così è anche oggi, in relazione alla campagna “L’Italia sono anch’io”, che tuttavia s’inserisce in un contesto che, rispetto al passato, vede un nuovo attore comparire sulla scena: le cosiddette seconde generazioni che, per fortuna, vi giocano un ruolo attivo, per molti versi decisivo.
La campagna, si sa, ha suscitato non solo consensi, adesioni ed entusiasmi, ma anche polemiche aperte o dissensi ipocriti. Le une e gli altri sono espressi perlopiù mediante argomenti frusti: per esempio, l’“esplosione demografica dell’Africa”, quindi l’ “invasione” e il rischio dell’islamizzazione del nostro Paese. Sono i topoi cari a Giovanni Sartori, ignaro che la quota largamente superiore d’immigrati in Italia provenga da paesi dell’Est Europa; che la maggioranza sia di confessione e/o cultura cristiana; che i Paesi coinvolti nella “primavera araba” ai quali allude conoscano da anni una considerevole diminuzione dei tassi di natalità: Tunisi ha lo stesso tasso di Marsiglia.
Quanto alle ‘ragioni’ di dissenso invocate da Beppe Grillo conviene glissare tanto sono espressione di senso comune, il più degradato. Più opportuno è spendere due parole sul disaccordo verso la riforma della cittadinanza e l’estensione del diritto di voto espresso dall’opinione ‘democratica’. Ne è rappresentativo l’articolo recente (La Stampa, 29 gennaio 2012) di Giovanna Zincone la quale, con acrobazie che è generoso definire abili, consente con Sartori per poi dissentire e infine disapprovare anche le due leggi d’iniziativa popolare. Scomodando Max Weber (dopo aver citato dottamente Ikea), Zincone obietta, in sostanza, che i promotori della campagna non fanno i conti con la realtà, peccano di idealismo, “vogliono dare tutto e subito”, senza tener conto delle compatibilità e degli equilibri parlamentari. Questo pure è un argomento che sentiamo da vent’anni, ripetuto anche nelle fasi politiche e sociali più propizie a qualche riforma democratica.
Ciò che colpisce dell’eterno ritorno è l’assenza di un ragionamento di prospettiva che s’interroghi su cosa significhi per le sorti dell’Europa che si pretende democratica continuare a perpetuare ciò che a suo tempo Etienne Balibar definì un apartheid su scala europea. L’esclusione da diritti di cittadinanza di ampi settori di popolazione, residenti in molti casi da ben più di una generazione, non solo è un ostacolo ai processi detti d’integrazione, ma rischia di legittimare e incrementare xenofobia e razzismo. Infatti, se si stabilisce e si accetta che il conferimento di certi diritti civili e politici dipenda da origini e discendenza, ci si pone all’interno del medesimo ordine di discorso che fonda il razzismo.
Sappiamo bene che la piena ‘cittadinizzazione’ è un processo complesso e di lunga durata, che non è solo questione di status giuridico, che non si esaurisce quindi nell’adozione di norme migliori delle attuali. Nondimeno allargare le maglie strettissime della normativa italiana sulla cittadinanza e sul diritto di voto varrebbe quanto meno ad attenuare l’apartheid. Il diritto di voto, in particolare, potrebbe contribuire a ridurre la ghettizzazione e la condizione di soggezione e di minorità cui sono costretti i migranti, essendo un mezzo, come più volte ha scritto Balibar, per accedere alla sfera pubblica e ai diritti di espressione, partecipazione, rivendicazione.
Si ciancia tanto di “integrazione” e soprattutto di “mancata integrazione”, come se integrarsi nel nostro Paese significasse assimilarsi a norme e costumi dell’italiano-medio. Pochi sono coloro che sottolineano la centralità del rappresentare ed essere rappresentati, del partecipare e rivendicare, del farsi quindi soggetti attivi della civitas. Che altro è la democrazia se non questo? Che democrazia è quella che esclude milioni di cittadini stabilmente residenti e perfino i loro figli?