di Viviana Schiavo
Negli ultimi mesi si è molto dibattuto, su giornali, riviste, tv e luoghi pubblici, sulle questioni del diritto di voto e della cittadinanza agli immigrati regolarmente presenti in Italia e ai loro figli. Grazie alle parole del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano (“Mi auguro che in Parlamento si possa affrontare anche la questione della cittadinanza ai bambini nati in Italia da immigrati stranieri.
Negarla è un’autentica follia, un’assurdità”) e alla campagna di raccolta firme “L’Italia sono anch’io”, la tematica ha assunto una posizione centrale nel dibattito pubblico italiano, rendendo evidente la necessità di una riforma legislativa. Attualmente, infatti, secondo la legge n.91 del 5 febbraio 1992, il bambino nato in Italia non è cittadino dalla nascita, ma può fare richiesta di cittadinanza solo raggiunti i 18 anni e, ad ogni modo, entro un anno dal compimento della maggiore età. Per lo straniero adulto sono, invece, richiesti 10 anni di residenza nel territorio italiano, mentre non esiste alcuna possibilità di poter votare alle elezioni amministrative per chi risiede legalmente nel paese. “L’Italia sono anch’io” propone di modificare la legge 91, accordando la cittadinanza automatica per i nati sul territorio con un genitore che vi risieda da almeno un anno e riducendo gli anni necessari per la naturalizzazione a 5, e di introdurre il diritto di voto alle elezioni locali per gli stranieri residenti regolarmente in Italia da almeno 5 anni. Il grande successo della campagna, con la raccolta e la consegna alla camera di più di 100.000 firme, dimostra quanto la questione sia fondamentale a livello pubblico e quanto gli stessi cittadini italiani avvertano questa necessità di riforma.
La discussione sull’attribuzione della cittadinanza e sul riconoscimento del diritto di voto in Italia, però, ci obbliga ad un confronto con la situazione dei paesi che ci circondano. Per questa ragione, abbiamo voluto analizzare la legislazione vigente sulla questione in 8 paesi europei: Spagna, Francia, Germania, Inghilterra, Olanda, Svezia e Norvegia.
Ius soli, ius sanguinis
In questi mesi si è a lungo parlato delle modalità di acquisizione e concessione della cittadinanza, utilizzando spesso le espressioni ius soli e ius sanguinis. Le norme che regolano la cittadinanza in un paese, infatti, sono basate su questi due principi: il primo considera cittadino colui che è nato e cresciuto in territorio nazionale (è il principio adottato, soprattutto, da paesi caratterizzati da una forte immigrazione, come gli Stati Uniti e il Canada); nel secondo caso, è cittadino chi nasce da cittadini dello stesso (è la modalità più diffusa nei paesi con una storia di emigrazione).
In Europa, la maggior parte degli Stati proviene da una tradizione di ius sanguinis, seppur con applicazioni differenti. In Spagna, per esempio, acquisiscono automaticamente la cittadinanza per nascita i bambini apolidi o i cui genitori risultino sconosciuti e i bambini di cui almeno un genitore sia nato in Spagna. Per tutti gli altri è necessario fare domanda, ma con delle agevolazioni rispetto agli adulti immigrati: il periodo di residenza richiesto è, infatti, di un solo anno rispetto ai 10 necessari agli stranieri regolarmente presenti nel paese. In Germania vige storicamente lo ius sanguinis, anche se, a partire dal 1 gennaio 2000, è stato introdotto anche il principio dello ius soli, con l’acquisizione automatica della cittadinanza da parte dei nati in Germania i cui genitori vivono legalmente su territorio nazionale da almeno 8 anni. Processo inverso è avvenuto in Irlanda che, prima del 2004, era l’unico paese europeo ad avere uno ius soli puro. A partire da questa data, a seguito dell’aumento dell’immigrazione, un referendum popolare ha costituzionalizzato lo ius sanguinis: acquisiscono automaticamente la cittadinanza i bambini nati in Irlanda da genitori irlandesi, britannici, da genitori che abbiano il diritto a vivere nel paese senza restrizioni di tempo o che nel corso dei 4 anni antecedenti alla nascita del figlio abbiano risieduto legalmente in Irlanda almeno per 3 anni. Non è più sufficiente, quindi, essere semplicemente nato nell’isola per essere cittadino irlandese.
Simile sistema troviamo nel Regno Unito, dove la cittadinanza si ottiene sia per nascita sul territorio, se i genitori sono legalmente residenti, sia per discendenza, se il genitore non è diventato a sua volta cittadino per discendenza. In Francia, invece, è prevista l’acquisizione della cittadinanza alla nascita per i bambini che nascono in Francia da almeno un genitore straniero a sua volta nato in Francia, per i bambini apolidi o i cui genitori siano sconosciuti. Gli altri bambini che nascono in Francia da genitori stranieri ottengono automaticamente la cittadinanza al compimento dei 18 anni, se hanno vissuto nel paese per 5 anni negli anni successivi al compimento dell’11° anno di età (possono comunque fare richiesta dopo aver compiuto 13 anni, se soddisfano il requisito di 5 anni di residenza). Più restrittive sono, infine, le legislazioni di Olanda, Norvegia e Svezia, basate principalmente sull’acquisizione della cittadinanza per discendenza.
“No taxation without representation”
Con questo slogan i coloni inglesi diedero inizio alla Rivoluzione Americana, ribellandosi alle tasse imposte dal governo centrale inglese al termine della guerra dei Sette anni, tasse alle quali non corrispondeva una rappresentanza all’interno del Parlamento inglese. La frase è stata riutilizzata in tempi più recenti a sostegno di diverse cause, tra le quali quella per il riconoscimento del diritto di voto per gli immigrati regolarmente presenti sul territorio statunitense. Nel corso degli anni, poi, diversi Stati americani hanno riconosciuto questo diritto.
Il panorama europeo, in merito alla questione, appare piuttosto multiforme e variegato: si passa da paesi che accordano il diritto di voto alle elezioni amministrative senza condizioni di nessuna sorta, come l’Irlanda o il Regno Unito (quest’ultimo solo per i cittadini irlandesi e dei paesi del Commonwealth), a Stati in cui questo diritto è totalmente assente. In altri casi il diritto di voto per gli stranieri è legato al possesso di alcuni requisiti, come la residenza o l’esistenza di un accordo di reciprocità col paese di origine. In Svezia e Norvegia il periodo di residenza minima richiesto per poter votare alle elezioni locali è di 3 anni, requisito non necessario se le persone in questione sono cittadini dei paesi nordici. In Olanda gli anni richiesti salgono a 5, mentre in Spagna alla condizione di residenza si aggiunge quella di reciprocità: possono partecipare alle elezioni amministrative solo i cittadini di quei paesi che a loro volta accordano tale diritto ai cittadini spagnoli. Al momento la Spagna ha firmato degli accordi di reciprocità con la Norvegia, con il requisito di 3 anni di residenza, e con Ecuador, Argentina, Colombia, Cile, Perù, Paraguay, Bolivia, Capo Verde, Islanda e Nuova Zelanda, con la condizione di 5 anni di residenza.
In Francia la questione è stata lungamente dibattuta. Nel 1981, l’allora Presidente della Repubblica François Mitterand inserì nel suo programma la proposta di accordare il diritto di voto alle elezioni comunali agli immigrati presenti regolarmente sul territorio da 5 anni. La misura non venne mai adottata, lo stesso Mitterand, in un’intervista a France 3 nel 1993, affermò che, nonostante i suoi sforzi, non era stato raggiunto il consenso pubblico sufficiente. Nel 2000 la questione è stata riaffrontata, quando l’Assemblea Nazionale, durante il governo del socialista Jospin, approvò la proposta. Il Senato, però, era a maggioranza di destra, per cui la misura rimase bloccata fino all’8 dicembre scorso, giorno in cui la legge è stata approvata da un Senato a maggioranza di sinistra con 177 voti favorevoli e 166 contrari. Ma l’iter legislativo prevede che una proposta di legge debba essere approvata da entrambe le camere. Attualmente sia l’Assemblea Nazionale che il Governo sono di destra e contrari a introdurre il diritto di voto per gli immigrati. Pertanto, la questione resta aperta.
Anche in Germania il dibattito prosegue dagli anni ’80. Nel 1990 la Corte Costituzionale Tedesca ha dichiarato incostituzionale il diritto di voto accordato agli stranieri alle elezioni amministrative da alcuni Stati Federali Tedeschi, affermando che il governo dovrebbe agevolare le procedure di naturalizzazione piuttosto che concedere il diritto di voto. In tempi più recenti, precisamente lo scorso anno, è stata avviata la campagna “Jede Stimme 2011” (Ogni voto 2011), organizzata dalle ONG “Jede Stimme” e “Citizens for Europe”. Nell’ambito della campagna, nel settembre 2011, sono state organizzate delle elezioni simboliche a cui hanno partecipato circa 3000 potenziali elettori non comunitari.
Una riflessione comunitaria
La sintetica analisi della situazione europea sopra proposta ci mostra l’arretratezza del sistema italiano per quanto riguarda la garanzia dei diritti dei cittadini di paesi terzi legalmente residenti sul territorio e rende evidente lo squilibrio esistente tra la presenza di un fenomeno migratorio ormai in progressiva stabilizzazione e la legislazione vigente. Allo stesso tempo, però, è possibile osservare che deficit simili, seppur di minor entità, esistono anche in altri paesi europei. Ne sono un esempio i paesi nordici, con una totale mancanza di norme che regolarizzino la situazione dei nati nel paese da genitori stranieri. Anche per quanto riguarda il riconoscimento del diritto di voto ci sono ancora molti passi avanti da fare. Il 5 febbraio 1992, il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa ha adottato la “Convenzione sulla Partecipazione degli Stranieri nella Vita Pubblica a Livello Locale” (STCE n. 144), che riconosce una serie di diritti agli immigrati non comunitari, come il diritto di espressione, di associazione e di voto locale dopo un massimo 5 anni di residenza. La convenzione è entrata in vigore nel 1995, ma non ha ricevuto l’accoglienza sperata da parte dei paesi membri: la maggior parte degli Stati che l’hanno ratificata hanno già delle politiche corrispondenti agli standard minimi della convenzione, mentre altri hanno ratificato solo una parte (come l’Italia, che ha escluso la parte riguardante il diritto di voto dalla sua ratifica). E’ dunque necessario rilanciare il dibattito su questi temi non solo a livello nazionale, ma anche a livello europeo: un maggior riconoscimento e una maggiore rappresentanza delle diverse voci che compongono ormai l’Europa contemporanea avrebbero sicuramente una ripercussione positiva anche sul processo di integrazione europea.
Scarica la scheda comparativa sul diritto di cittadinanza in Europa
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