Sabato 15 febbraio a Roma una manifestazione chiederà la chiusura del CIE di Ponte Galeria, mentre a Mineo si manifesterà il giorno dopo contro il CARA che “ospita” 4000 persone, circa il doppio della capienza prevista.
Negli ultimi mesi i Cie, i CPSA, i CDA e i CARA sono tornati alla ribalta delle cronache: soprattutto a seguito delle proteste, delle fughe e delle denunce (ultima quella del video diffuso dal CPSA di Lampedusa) messe in atto dai migranti, sono stati meta (di nuovo) di molteplici visite di parlamentari, giornalisti e attivisti antirazzisti, oggetto di dichiarazioni politiche eclatanti e di mozioni parlamentari. Persino il Presidente della Repubblica (che è uno dei due ex Ministri autori della legge 40/98 che ha introdotto nel nostro ordinamento l’istituto della detenzione amministrativa) non ha potuto fare a meno di rispondere alla lettera inviatagli da uno dei migranti detenuti nel centro di Ponte Galeria durante la protesta dello scorso dicembre, sostenendo la necessità di ridurre il tempo di permanenza massimo da 18 mesi a 60 giorni.
Il tutto mentre nel corso degli ultimi mesi il sistema dei CIE è di fatto più che dimezzato: sugli 11 CIE teoricamente previsti, oggi solo 5 restano in funzione per una capienza teorica di 1791 posti, una capienza effettiva ufficiale di 842 posti (dati forniti dal vice-Ministro Bubbico nel corso di un’Audizione alla Commissione Migrazione dell’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa il 4 febbraio scorso) e una presenza effettiva di circa 500 persone (questo Bubbico non l’ha detto). Dati ben lontani da quella capienza teorica superiore agli 8mila posti immaginata per gli 11 centri funzionanti a regime.
Tutti, persino molti operatori delle forze dell’ordine, lo sostengono ormai da tempo: queste strutture di segregazione non funzionano, sono disumane, inefficaci e inefficienti, comportano un significativo dispendio di risorse pubbliche, tanto più ingiustificabile in un periodo di penuria come quello attuale.
Eppure la coazione a ripetere sembra destinata a continuare. Nel corso dell’audizione sopra citata il vice-Ministro ha offerto un quadro molto esaustivo delle intenzioni del Ministero dell’Interno per quanto riguarda il futuro dei CIE, che sarebbero le seguenti:
1) la “considerazione della possibilità di rivedere la disciplina dei tempi di permanenza”;
2) la costituzione di un gruppo di lavoro per la revisione del Capitolato generale di appalto per la gestione dei centri “al fine di innalzare il novero dei servizi erogati e di rendere più uniforme lo standard di accoglienza sull’intero territorio nazionale” e “rivalutazione complessiva dei prezzi degli appalti” e
3) la promozione di “iniziative dirette all’allargamento del sistema di accoglienza attraverso l’attivazione di nuovi centri con caratteristiche strutturali idonee ad assicurare migliori condizioni di ospitalità ai migranti”.
Nel corso dell’audizione il Vice-Ministro ha per altro annunciato “l’imminente istituzione di un Centro governativo a San Giuliano di Puglia, destinato all’accoglienza dei migranti vulnerabili, famiglie in particolare, nel quale potranno essere ospitate fino a 1.000 persone” (il cui status giuridico non viene meglio precisato) e la riapertura del centro di Contrada Imbriacola a Lampedusa dopo la fine dei lavori che dovrebbero riportarne la capienza a 381 posti.
Ci auguriamo naturalmente di essere smentiti appena si insedierà (pare) un nuovo Governo, ma il futuro sembra destinato a riproporre un circolo vizioso che conosciamo ormai da 15 anni: il protrarsi delle proteste dei migranti detenuti nei CIE, il danneggiamento delle strutture in alcuni casi, i conseguenti lavori di ristrutturazione con la chiusura parziale delle stesse e l’investimento delle ulteriori risorse necessarie, il mantenimento di una capienza limitata che accresce, se possibile, l’irrilevanza dell’istituto della detenzione amministrativa ai fini del cosiddetto “contrasto dell’immigrazione irregolare”. Il massimo che possiamo aspettarci è che venga “presa in considerazione” la possibilità di una riduzione dei tempi di permanenza all’interno dei centri e lo stanziamento di qualche euro in più rispetto al prezzo a base d’asta previsto dall’attuale capitolato d’appalto (30 euro pro capite-pro die).
A meno che qualche dirigente illuminato non decida di prendere atto per via amministrativa del processo di implosione del sistema (difficile attendere una riforma normativa in materia) scegliendo di non riaprire le strutture chiuse (come è stato fatto a Modena), magari sollecitato dalle pressioni degli enti locali che ospitano i Cie sui loro territori, oltre che dai movimenti che da anni protestano e ne chiedono la chiusura non temporanea né intermittente ma definitiva.
Qui il testo dell’audizione del vice ministro sen. Bubbico presso la Commissione migrazione dell’assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa