E’ stato rilasciato dal Centro di identificazione ed espulsione di Bari Palese, e audito dalla Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale, che gli ha finalmente riconosciuto la protezione umanitaria. Sembra incredibile la storia di B.A. Solo una settimana fa scriveva “Mi stanno uccidendo, aiutatemi”, in una lettera pubblicata dall’agenzia Ansa e diffusa dai quotidiani. E proprio l’attenzione che si è concentrata intorno alla sua vicenda, grazie anche agli attivisti di Rivoltiamo la precarietà, gli ha permesso di uscire dal Cie in cui era detenuto, dopo più di vent’anni di residenza in Italia.
“E’ cambiato tutto in una settimana”, sottolinea lui stesso, che in Italia è arrivato nel 1991, 23 anni fa, all’età di dodici anni. E dove ha frequentato le scuole, ha lavorato, si è sposato con una donna italiana, con la quale ha avuto un figlio. Insomma ha vissuto gran parte della propria vita in Italia. Ma questo non è stato sufficiente a evitargli il trattenimento nel Cie: non solo in quello di Bari, ma anche in quello di Roma, Ponte Galeria, dove è stato portato prima di ricevere un provvedimento di espulsione per motivi di sicurezza. Una misura predisposta a seguito di alcune condanne – tutte scontate – per reati di piccola entità.
All’interno del Cie fece, nel 2013, domanda di asilo, che però fu respinta. Ma proprio dal Cie di Ponte Galeria fu rilasciato, per “incompatibilità con il suo stato di salute”: B.A. è infatti cardiopatico, e per questo porta uno stent, segue una terapia farmacologica e negli anni si è recato varie volte in Svizzera. ‘Invitato’ a lasciare l’Italia entro sette giorni, decide di andare in Austria e lì chiedere protezione. In attesa dell’esame della domanda, in Austria gli è stato assicurato un alloggio e un sussidio, era stato anche programmato un intervento chirurgico di rivascolarizzazione. Che B.A. non è riuscito a fare: lo scorso 2 giugno, in ottemperanza all’ordine stabilito dal Giudice di sorveglianza di Frosinone di dare esecuzione alla misura di espulsione, la polizia austriaca lo ha prelevato da casa e lo ha accompagnato alla frontiera, consegnandolo alla polizia italiana che lo ha portato nel Cie di Bari. Qui ha inoltrato domanda di protezione. E qui lo scorso 28 giugno ha iniziato uno sciopero della fame e delle medicine “dopo essere stato aggredito da un poliziotto in servizio nel centro”, come ha scritto lui stesso in una lettera (che si può leggere qui), in cui ha spiegato le modalità dell’aggressione che, stando a quanto si legge, ha avuto luogo “davanti le telecamere a circuito chiuso” e alla presenza di un’infermiera e di un operatore.
Dopo la promessa di una visita medica ospedaliera per un pre-ricovero al fine di un intervento chirurgico, l’uomo ha interrotto lo sciopero in corso. Ma secondo il medico che ha effettuato la visita di controllo presso il reparto di cardiologia del Policlinico di Bari “non solo non ha bisogno dell’intervento, ma non ha neppure bisogno della terapia”. A. B. è tornato dunque nel Cie. Il medico del Centro di identificazione ed espulsione, dopo aver visto le cartelle cliniche di A.B., ha spiegato di “non essere assolutamente d’accordo”: i medici del Policlinico di Bari dopo un primo controllo avevano già incrementato la terapia seguita dall’uomo, suggerendo in quell’occasione “un intervento di rivascolarizzazione” – per il quale B. A. ha appunto effettuato la visita di pre-ricovero – perché, come ci spiega il diretto interessato, “lo stent si è chiuso e ho bisogno di un by-pass”. Ciononostante, il medico del Cie ha specificato che “deve valere quello che dice lo specialista, di cui comunque attendiamo la relazione”. Specialista che ad oggi risulta sospeso dal suo incarico presso l’ospedale barese.
Intanto la vicenda di B. A. è rimbalzata sui quotidiani. Alcuni parlamentari di Sel hanno presentato un’interrogazione al ministro dell’Interno, e il presidente della Commissione del Senato per la tutela e la promozione dei diritti umani, Luigi Manconi, ha sollecitato la Prefettura di Bari. Lo stesso Manconi a febbraio aveva presentato un’interrogazione al Ministro dell’interno sul Cie. Un’altra interrogazione, presentata dalla deputata di Sel Pannarale Annalisa, chiedeva di fare luce sul decesso di un cittadino cittadino egiziano di 25 anni.
Sul Cie di Palese si è inoltre espresso il Tribunale di Bari, in risposta a una class action avanzata dall’associazione Class Action Procedimentale, ordinandone la ristrutturazione immediata per garantire “standard dignitosi di vivibilità”. Una sentenza che non è mai stata rispettata, come denunciato anche da Medici per i Diritti Umani, che già nel 2012 aveva “messo in luce le critiche condizioni strutturali e ambientali in cui versava il centro”.
Nonostante tutti gli interventi e gli appelli lanciati dalle associazioni antirazziste, il Cie di Bari Palese continua a esistere, e a nuocere a molte persone. Anche se hanno passato tutta la propria vita in Italia, anche, incredibilmente, se nate in Italia (qui la storia di Emra Gazi, nato in Italia e detenuto nel Cie di Bari prima di essere liberato per le condizioni psico-fisiche in cui lo aveva ridotto la detenzione).
La Commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani del Senato ha definito il sistema Cie “un impianto intimidatorio” che lo stato mantiene in chiave “puramente simbolica”. E che ricade pesantemente sulla vita delle persone. “Quando il Governo ammetterà che questo sistema è inutile e fallimentare e deciderà di attuare le misure alternative alla detenzione amministrativa?” chiedeva lo scorso febbraio la campagna LasciateCIEntrare.
La domanda rimane la stessa, insieme ad altre: quante altre persone dovranno subire condizioni di vita indegne e imposte, prima di vedere riconosciuti – forse – i propri diritti? Per una persona che riesce a uscire da questo calvario, quante altre lo vivono in silenzio e nell’indifferenza dell’intera società?