Sessantotto pagine dal titolo pomposo: “Documento programmatico sui centri di identificazione e espulsione”. Una sfilza di proposte operative per “reimpostare” il funzionamento dei Cie, le galere per i migranti che devono essere espulsi dal nostro paese.
Se quello firmato dal Sottosegretario di Stato Saverio Ruperto non è la proposta operativa del “pool” messo in piedi qualche mese fa dal ministro dell’Interno Anna Maria Cancellieri per “ristrutturare” questi centri, qualcuno dovrà spiegare che cos’è.
Quando lunedì scorso la deputata del Pd Sandra Zampa aveva dato notizia dell’esistenza di questo documento, il Viminale aveva assicurato che si trattava di “notizie distorte” a proposito di un “dossier conoscitivo” volto a “fotografare” la situazione dei centri, nell’ottica di “migliorare le condizioni dei detenuti”.
Ma da ieri quelle 68 pagine hanno cominciato a circolare tra le associazioni che si occupano da anni di diritti degli immigrati, quasi tutte ormai attivamente impegnate nella campagna nazionale LasciateCIEntrare: una campagna che da due anni monitora i Cie, e che proprio alla fine del 2012 è giunta alla conclusione che l’unico modo per “ristrutturarli” sia chiuderli, senza se e senza ma. Troppe violazioni dei diritti umani, totale inefficacia per la stessa politica dei rimpatri, inefficienza nei costi e nella gestione: secondo la campagna non esiste un modo per far funzionare queste strutture, che si basano tra l’altro sull’assunto che una persona che non ha commesso alcun reato possa essere privata della libertà personale.
Il documento parte dalla tesi opposta, e cioè che i centri non possano neanche essere messi in discussione. E fa delle proposte molto precise, nella maggior parte dei casi inasprendo le condizioni di vita delle persone trattenute e proponendo l’adozione a livello nazionale di alcune pratiche già denunciate dalle associazioni – come ad esempio la “messa in isolamento” di chi viene considerato un elemento di disturbo – e che invece secondo il Ministero sono evidentemente “best practices” da esportare.
La task force – composta dal Sottosegretario e da alcuni prefetti (Gelati, Pria, Ronconi, Lavina, Zito, Ammendola e Pomponio, quest’ultimo reggente del servizio immigrazione alla Direzione centrale dell’immigrazione e della polizia di frontiera) – era stata messa in piedi da Cancellieri nel giugno del 2012, con l’obiettivo – come spiega lo stesso documento – di elaborare delle proposte che consentissero una gestione efficace e uniforme dei centri, su tutto il territorio nazionale.
Il documento programmatico, dunque, può essere a tutti gli effetti considerato la linea guida del Viminale per la gestione dei Cie: se i ministri passano con il cambiare delle maggioranze politiche (o dei governi tecnici), queste proposte sono state elaborate e messe nero su bianco dalla struttura amministrativa del Ministero.
Chiarito che la “administrative detention”, cioè la detenzione amministrativa, viene applicata “negli altri paesi europei da secoli (in Francia addirittura dal 1810)”, la task force precisa che “i Cie fanno ormai stabilmente parte dell’ordinamento e risultano indispensabili per un’efficiente gestione dell’immigrazione irregolare“. Questo è stato l’atteggiamento con cui i prefetti e il Sottosegretario si sono apprestati a fare una fotografia dei Cie e a proporre delle modifiche: la possibilità di sperimentare nuovi modi per gestire l’immigrazione irregolare, dopo quindici anni di fallimenti conclamati, non è stata neanche presa in considerazione.
I Cie, secondo il Ministero, sono ormai strutture “stabili”, inestirpabili verrebbe da dire, e “indispensabili”.
Quale allora lo scopo delle “visite” di Ruperto?
Tentare, per l’ennesima volta, di far quadrare la gestione. L’organizzazione di queste strutture, spiega il documento, “deve essere basata su standard di qualità che siano elevati, omogenei e verificabili, e improntata a criteri di economicità e efficienza”, visto anche che il tema dei Cie è stato “sovraesposto” causa “l’interesse manifestato da più parti della politica, la costante vigilanza degli organismi internazionali, e una spiccata sensibilità dell’opinione pubblica”. Insomma, un po’ perché i problemi ci sono e certo il Ministero non li può negare – di standard elevati con tutta onestà non si può parlare – un po’ perché l’opinione pubblica preme, ai prefetti va l’arduo compito di trovare la quadra.
Come vedremo, la soluzione può essere solo una: fare un po’ di make up ai capitolati d’appalto per cercare di risparmiare. Ma sul fronte dell’ordine interno la risposta è netta: chiudere i centri a occhi indiscreti e applicare il pugno duro contro chiunque voglia protestare.
La gestione amministrativa: La task force, al fine di improntare la gestione dei centri a criteri di economicità, uniformità e efficienza, individua la soluzione nella soluzione del gestore unico di impres: in pratica, l’appalto sarebbe unico a livello nazionale, a evidenza pubblica, e affidato a un solo ente, eventualmente strutturato in un raggruppamento temporaneo di imprese. Ma il Viminale pensa anche alla possibilità di creare un “corpo di operatori professionali”, una specie di esercito civile: da quel che si capisce, infatti, si tratterebbe di figure a metà strada tra le forze dell’ordine – cui resterebbe affidata la sicurezza – e gli operatori degli enti. Formati e “addestrati” anche con il contributo della polizia penitenziaria, avrebbero il compito di essere “figure di contatto” diretto con gli ospiti. Un’altra riforma suggerita dalla task force è quella che riguarda i tempi di permanenza, attualmente fissata a 18 mesi, il tempo massimo concesso dalla direttiva rimpatri dell’Unione europea, che però identifica anche il trattenimento come “extrema ratio”. Il documento certifica che nel 2012 il tempo di permanenza medio degli stranieri è stato di 38 giorni, a fronte di un 50,6% di espulsi dopo il trattenimento. Eppure i prefetti arrivano alla conclusione che la durata massima del trattenimento andrebbe “tagliata” solo di sei mesi, portandola a un anno. Scelta abbastanza incomprensibile, considerato che la legge prevede che, trascorsi i primi sei mesi, il giudice di pace possa concedere ulteriori 12 mesi di trattenimento solo a fronte di ritardi dovuti alla burocrazia delle ambasciate o di una evidente mancata collaborazione dello straniero alla propria identificazione.
L’accesso ai centri: Quello dell’accesso ai centri di detenzione da parte delle associazioni e dei giornalisti è stato il problema che ha dato il via alla campagna LasciateCientrare, quando il 1 aprile del 2011 con la “famigerata” circolare 1305 il ministro dell’Interno – allora Roberto Maroni – decise di consentire l’accesso nei Cie solo a poche figure (gli organismi internazionali e alcune ong come Amnesty International). Fuori sia i consiglieri regionali, che prima avevano le stesse prerogative dei parlamentari, sia il privato sociale e i giornalisti.
Il ministro Cancellieri ha riportato le lancette dell’orologio ante 1 aprile 2011: possono entrare giornalisti, privato sociale, sindaci, presidenti di provincia, giunta e consiglio regionale, chiedendo il permesso ai prefetti che a loro volta devono comunicare la propria decisione, motivandola, al Dipartimento per le Libertà civili.
La proposta sembra quindi quella di mantenere le cose come sono, solo ritornando a dare “maggiore autonomia” alle Prefetture. Che potranno decidere da sole, semplicemente comunicando al Dipartimento centrale la decisione presa.
Standard sanitari: E’ uno dei capitoli che certamente troverà maggiore contestazione tra le associazioni e le realtà politiche che si sono occupate di questo tema.
Il documento infatti, con molta freddezza, osserva che “uno dei metodi maggiormente utilizzati dai trattenuti per tentare di fuggire dai centri consiste di provocare, anche con atti di autolesionismo, le condizioni per essere ricoverati in strutture sanitarie esterne”, da cui poi è più semplice “allontanarsi”.
I prefetti non si premurano di verificare – come è nei fatti – se gli atti di autolesionismo siano aumentati con l’aumentare dei tempi di trattenimento, quasi sempre considerati ingiustificati e comunque insopportabili dalle persone rinchiuse nei Cie. Ingoiano la lametta? La soluzione è dotare i Cie di “un servizio di assistenza efficiente e completo”, che preveda la presenza costante di un medico con responsabilità direzionali, alcuni specialisti, la possibilità, ad esempio, di prelevare sangue da analizzare all’esterno di quelli che diventerebbero a tutti gli effetti delle specie di bunker. Unica concessione – si fa per dire – l’auspicio che vengano stabilite delle convenzioni con le Asl per valutare la salute di una persona prima di condannarla al trattenimento. Nell’ultima riga si osserva che “alla stregua dei parametri di compatibilità economica” si valuta la possibilità di aumentare le ore di assistenza medica e psicologica.
Eterogeneità degli standard giuridici e “pacifica convivenza”: E’ questo un altro dei capitoli che scateneranno molte polemiche. La task force affronta un tema delicatissimo: le numerose rivolte che si verificano all’interno delle strutture, portando al danneggiamernto delle stesse e alla conseguente riduzione della capienza. I prefetti riconoscono nella “eterogeneità degli status giuridici”, ma anche nella “promiscuità delle etnie di provenienza”, un problema. Ma affrontano concretamente solo la parte riguardante la convivenza, dentro i centri, di incensurati e persone che escono dal circuito penale. L’auspicio è di riuscire a applicare la circolare del 2007 – emanata dall’allora ministro della Giustizia Manconi – che prevedeva la possibilità di identificare direttamente in carcere lo straniero condannato, anche al fine di non sottoporlo ad altri mesi di ingiusta detenzione. Per questo vengono individuate varie soluzioni che dovrebbero garantire un maggiore coordinamento tra le strutture del Ministero dell’Interno e quello della Giustizia. E veniamo alla “pacifica convivenza”. I prefetti usano parole durissime contro chi, in questi anni, ha messo in piedi vigorose proteste dentro i Cie: parlano di episodi di “sedizione e rivolta”, di “condotte violente e antisociali”. E a questo proposito lodano le misure già applicate in alcuni centri, volte a “frazionare i gruppi di stranieri” rivoltosi e a trasferirli in altre strutture “mediante l’apposita creazione all’interno di ogni Cie di moduli idonei ad ospitare persone dall’indole non pacifica”. Insomma, persone che si sono ribellate contro una condizione che lo stesso Viminale valuta inefficiente e piena di problemi, sono marchiati a fuoco come gente “dall’indole non pacifica”, e come soluzione si ritiene opportuno isolarli immaginando una specie di circuito da 41 bis –la detenzione di massima sicurezza prevista nelle carceri per i mafiosi – dentro i Cie. Non solo: secondo i prefetti bisogna rivedere anche la normativa, prevedendo nel Testo unico sull’immigrazione addirittura “una aggravante per i reati commessi all’interno dei Cie”. Si tratterebbe di una “norma di rango primario”, quindi di una vera e propria fonte normativa, che attribuirebbe a questori e prefetti, o a “consigli di disciplina”, il potere di disporre, come punizione per i rivoltosi – attenzione: si parla di episodi “attuali o potenziali” – il trattenimento in queste strutture “differenziate”. Decisione amministrativa che andrebbe “sottoposta al controllo di legittimità” del giudice di pace. Salta agli occhi che, come effetto immediato, questa decisione espellerebbe l’autorità giudiziaria ordinaria – cioè i tribunali – dall’ultimo “pezzetto” dell’iter della detenzione amministrativa su cui possono mettere bocca. Chi danneggia, infatti, viene denunciato e processato. Alcuni di questi processo hanno portato all’assoluzione degli autori dei danneggiamenti e, nel caso di un recente pronunciamento del tribunale di Crotone, gli autori della rivolta sono stati addirittura giustificati nella loro condotta dal magistrato, vista la condizione di totale privazione a cui erano stati sottoposti. Il loro atto di rivolta, secondo il giudice, era “legittima difesa”. I prefetti osservano che tentativi di fuga e rivolta avvengono anche a causa del nulla che impera nei centri, e quindi si suggerisce di implementare le attività ricreative. La task force auspica, inoltre, la possibilità per i giudici di pace di avere una stanza predisposta all’interno di ciascun centro ove svolgere le udienze di convalida.
Modalità di trattenimento: I prefetti riconoscono che esiste una disomogeneità tra i vari centri, anche se colpisce che riconoscano come “buona prassi” – che auspicano essere estesa a tutti i Cie – “di comunicare agli interessati cosa prevedono le procedure di espulsione e quali saranno i provvedimenti che li riguardano direttamente”: un’informazione che dovrebbe essere scontata.
Tra gli altri aspetti che andrebbero maggiormente curati, i prefetti citano la libertà di circolazione, di colloquio, di religione e in generale una rigorosa tutela “dei diritti umani”. Paragrafo a parte quello sui telefonini: secondo la task force del ministero va garantito il loro uso “ma solo se non muniti di videocamera” (cosa che già avviene in molti casi) e in ogni caso si ritiene che sia giusto impedire l’uso del telefono cellulare qualora ci sia “un abuso” o possano essere utilizzati per organizzare “tentativi di rivolta”. Si auspica quindi che venga stilata una vera e propria “disciplina dell’uso dei telefoni cellulari”. Anche sul fronte dell’assistenza legale, i prefetti intervengono: ritengono opportuno stringere accordi con i Consigli locali degli ordini degli avvocati per “garantire maggiore trasparenza e regolarità” nel rapporto con l’immigrato e “non alterare la concorrenza”.
Le forze di polizia: I prefetti auspicano una maggiore valorizzazione dell’ente gestore e dei suoi operatori, sostengono di aver ricevuto richieste dagli enti su un maggiore impiego delle forze dell’ordine, ma non la ritengono una scelta di per sé efficace. Meglio le “difese passive”.
Ricollocazione dei Cie: Come si sa uno dei principali problemi da sempre riscontrati a proposito dei Centri di identificazione è proprio la bassa efficacia dimostrata persino sul fronte delle espulsioni, la ragione stessa, a detta del Ministero, della loro esistenza. La task force liquida questo aspetto in modo celere: “Uno degli strumenti più efficaci per ridurre il tempo di identificazione degli stranieri è il ricorso alla collaborazione delle autorità consolari”. Dunque? Semplice: basta concentrare i Cie laddove esistano rappresentanze consolari. Il che, se da un lato potrebbe lasciar intendere un velato invito a diminuire il numero dei Cie, dall’altro senza dubbio lascia spazio a un modello di “mega centro”, che certo non pare essere una soluzione opportuna.