A distanza di circa sei anni, si torna a parlare del Commissariato degli orrori di Opicina. Il pubblico ministero ha avviato, nei giorni scorsi, il rito abbreviato chiedendo l’incarcerazione per sette dei nove poliziotti dell’Ufficio immigrazione indagati (dirigenti compresi), due dei quali sono chiamati a rispondere di omicidio colposo per la morte della giovane Alina Bonar Diachuk, sulla quale peraltro nessuno aveva vigilato, mentre agonizzava in cella, nonostante le telecamere installate in commissariato. Per l’ex responsabile dell’Ufficio stranieri della Questura, il pm ha proposto 5 anni, 9 mesi e 10 giorni, oltre all’interdizione perpetua dai pubblici uffici. Per il suo vice 5 anni, 3 mesi e 14 giorni e, analogamente al collega, l’interdizione perpetua dai pubblici uffici. Per altri cinque imputati sono richieste pene che vanno da un minimo di un anno, 1 mese e 10 giorni a un massimo di 2 anni e 6 mesi. Per le tre guardie del commissariato incaricate della sorveglianza di Alina, accusate di omicidio colposo per il decesso della trentaduenne, la posizione giudiziaria è diversa: per l’agente scelto, a cui viene contestata anche l’omessa vigilanza, il pm ha domandato 1 anno, 5 mesi e 10 giorni. Per un altro agente che sarà giudicato in rito ordinario, è stato disposto il rinvio a giudizio (e l’interdizione dai pubblici uffici per l’intera durata della pena). Per un terzo agente, infine, è stato chiesto il proscioglimento: non aveva doveri di servizio nella circostanza che ha portato alla morte della donna.
Era il 16 aprile 2012 quando Alina, cittadina ucraina di 32 anni, si è suicidata nel commissariato di Villa Opicina, piccola frazione vicino Trieste (noi ne avevamo parlato qui e qui, oltre che nel nostro terzo libro bianco sul razzismo in Italia), legando una corda al termosifone della cella in cui era stata rinchiusa a chiave due giorni prima. La notizia non aveva suscitato molto clamore, anzi era stata frettolosamente derubricata ad un “banale” fatto di cronaca nera. Ma con il passare dei giorni, le informazioni cominciavano a filtrare e a riportare a galla l’orrore di ciò che si era consumato in quella cella. Vi era stata persino un’interrogazione parlamentare il 21 maggio 2012 (Atto Camera. Interrogazione a risposta scritta 4-16190 presentata da Ettore Rosato, seduta n.635).
Ma in quel Commissariato, certo, Alina aveva avuto la peggio, ma non era stata la sola. Infatti sono stati ben 175 i casi accertati, ed inseriti nel faldone dei giudici, di violenze e abusi sui cittadini stranieri, in attesa di espulsione e trattenuti illegalmente nelle celle di Opicina, analogamente ad Alina. Una “prassi” durata anni e emersa con la tragica fine della donna: ovvero trattenere senza alcun provvedimento restrittivo dell’Autorità giudiziaria numerosi cittadini stranieri, comunitari e non, ritenuti (a volte erroneamente) irregolari sul territorio nazionale.
Fulcro della vicenda, lo ricordiamo, è l’ex capo dell’ufficio immigrazione, definito “Ufficio Epurazione”, con un cartello affisso vicino alla sua scrivania, in bella mostra insieme a una foto di Benito Mussolini e a un fermacarte con il motto fascista “Boia chi molla”. Nel corso di una perquisizione, dopo la morte della donna, a casa del dirigente vennero ritrovati libri come il “Mein Kampf” di Adolf Hitler, “La difesa della razza” di Julius Evola o “Come riconoscere e spiegare l’ebreo” di un certo George Montandon, un busto e vari poster di Mussolini e altri materiali inequivocabili. Ma l’interesse del dirigente per certi temi fu “giustificato” da alcuni sindacati di polizia affermando che erano un’eredità di quando il dirigente lavorava per la Digos.
Le indagini si chiudono nel gennaio 2015: la Procura della Repubblica di Trieste notifica l’avviso di conclusione delle indagini all’allora dirigente dell’Ufficio Immigrazione, accusato di sequestro di persona aggravato, e a tre agenti del Commissariato, accusati invece di “violata consegna” e “morte come conseguenza di altro reato”. Un fascicolo “pesante” da oltre 10.000 pagine di atti, più altri 246 fascicoli personali di altrettanti cittadini stranieri; all’interno di questi atti è contenuto anche il drammatico video che riprende le fasi del suicidio. L’avvocato dei familiari di Alina chiede un risarcimento di 500mila euro al Ministero degli Interni. Ma anche il risarcimento viene successivamente “patteggiato” alla somma di 150mila euro, accordati poi nel 2016.
Nella stessa occasione del riconoscimento del risarcimento, viene anche fuori un vecchio verbale del 2006: un documento relativo all’incontro tra i vertici della Prefettura e della Procura stessa, che, insieme alle successive e conseguenti circolari della Questura, dimostrerebbe in modo inequivocabile che gli agenti dell’Ufficio immigrazione hanno per sei anni (dal 2006 al 2012, ndr) eseguito le indicazioni emerse da quella riunione. E questo significa che la stessa Procura era a conoscenza della “procedura” che dopo il 2012, con la morte di Alina, è stata ritenuta correttamente fuori legge.
Ciò che è ancor più triste constatare in tutta questa gravissima vicenda, è che, alla fine, dopo la morte di una donna, e ben 6 anni trascorsi, soltanto quattro cittadini stranieri sui 175 casi accertati si sono costituiti parte civile, in attesa di un risarcimento per detenzione abusiva.
E in ogni caso: può un risarcimento in denaro restituire la dignità e la serenità a queste persone violate e abusate illegalmente nella cella di un commissariato?