Suor Eugenia Bonetti, presidente dell’associazione “Slaves no more“, e Oria Gargano, presidente della cooperativa “BeFree“, due realtà che aiutano le giovani immigrate africane vittime di sfruttamento sessuale, decidono di scrivere una lettera al neo Ministro dell’Interno Matteo Salvini, per informarlo di “alcune evidenze” scaturite dal loro “pluriennale lavoro a fianco delle persone immigrate, con specifico riferimento alle giovani africane, in particolare nigeriane, vittime di tratta degli esseri umani a scopo di sfruttamento sessuale”. L’indice è puntato ancora sul termine “pacchia” utilizzato da Salvini in una sua dichiarazione e che ha sollevato numerose polemiche. La lettera viene pubblicata sul quotidiano Avvenire e poi diffusa su altri siti d’informazione. Nel giorno del voto di fiducia alla Camera per il governo Conte, anche le missionarie della Casa Rut di Caserta, altro punto di accoglienza per le vittime di tratta, vogliono far sapere a Salvini di essere “molto preoccupate per il clima di odio generato da certe affermazioni”, e mandano al governo tre grembiuli in tessuti africani (al presidente del Consiglio Conte e ai ministri Luigi Di Maio e Matteo Salvini). Suor Rita Giaretta, da 22 anni alla guida di Casa Rut, ha dichiarato: “È nostra consuetudine inviare questo omaggio al nuovo governo. Quest’anno abbiamo sentito l’urgenza di farlo per richiamare quello che si presenta come il ‘governo del cambiamento’ alle sue responsabilità. È un gesto altamente significativo. Il cambiamento avviene quando chi assume ruoli di potere si mette a servire, non dimostra l’arroganza del potere ma ascolta i bisogni dei più deboli”. Qui di seguito la lettera.
Signor Matteo Salvini,
ora che ha avviato il suo mandato di ministro dell’Interno ci sentiamo di renderle note alcune evidenze scaturite dal nostro pluriennale lavoro a fianco delle persone immigrate, con specifico riferimento alle giovani africane, in particolare nigeriane, vittime di tratta degli esseri umani a scopo di sfruttamento sessuale – reato transnazionale qualificato dalle più importanti fonti normative internazionali quale reato contro i diritti umani.
Le vicende che queste donne ci raccontano non possono certo essere descritte con il termine «pacchia» che lei ha voluto utilizzare per una sommaria descrizione della qualità di vita di migliaia di uomini, donne, bambine e bambini costretti a lasciare il proprio Paese per l’indubitabile insostenibilità della loro situazione dovuta a ingiustizie, povertà, corruzione, impossibilità di costruirsi un futuro, nonché a motivo di conflitti armati.
Fattori in cui l’Occidente ha enormi responsabilità. Vorremmo soffermarci sulle storie delle giovani e giovanissime, sempre più spesso minorenni, che arrivano nelle nostre città. Il viaggio inizia con la promessa di un lavoro onesto e una vita migliore per loro e le loro famiglie, quasi sempre assai numerose. Promessa che, nell’isolamento dei villaggi e in una situazione deprivante, le giovani accettano con speranza ed entusiasmo. Durante il lungo percorso nel deserto prende invece corpo il meccanismo di sottomissione. Le speranze si infrangono in Libia, dove sono costrette a prostituirsi quasi sempre con violenze fisiche e psicologiche in ‘Connection Houses’ gestite dalla mafia nigeriana con la mala libica. Quando finalmente le ragazze si imbarcano e giungono sulle coste italiane, trovano ad attenderle la ‘maman’ o altri esponenti della mafia nigeriana pronti a farle prostituire per gli italiani. Il patto è unilaterale, le condizioni nette: se la ragazza non darà all’organizzazione tutti i guadagni, a copertura di un millantato credito di decine di migliaia di euro, verrà uccisa come potranno esserlo i familiari in patria. Strozzata dalla paura e ricattata, ognuna diventa emblema della sistematica violazione dei diritti umani e di una profonda ineguaglianza. Per intervenire contro tali ingiustizie è impensabile colpire chi ne è vittima. Per rendere un Paese accogliente, inclusivo, rispettoso delle vittime di questi soprusi non si può tuonare contro i ‘clandestini’ senza conoscere le situazioni da cui provengono e chi sono coloro che hanno organizzato il viaggio.
L’Italia è stato il primo Stato europeo a comprendere il meccanismo del traffico di esseri umani. Fin dal 1998 la legge 286 (la ‘Turco-Napolitano’) ha previsto percorsi di sostegno e inserimento sociale per persone sfruttate e abusate. Il permesso di soggiorno ‘ex articolo 18’ ha rappresentato, e rappresenta, una pratica di eccellenza che l’Ue tenta di replicare. Non possiamo tornare indietro. Tanto più che le pratiche a sostegno delle ‘trafficate’ moltiplicano le indagini contro i trafficanti coordinate dalla Dda. Le organizzazioni che si occupano dei migranti e delle migranti in difficoltà hanno maturato esperienze di altissimo livello, importanti per restituire alle persone diritti imprescindibili e veicolare messaggi di accoglienza.
I fondi stanziati per gli interventi umanitari provengono dalla Commissione europea, a riconoscimento del ruolo centrale del-l’Italia. Perché allora raccontare agli italiani che quei fondi sono sottratti alle politiche sociali destinate ai nativi? Signor ministro, cosa può portare di buono aizzare una guerra tra poveri? Come enti e associazioni da molti anni impegnati a liberare migliaia di donne, schiavizzate per migliaia di italiani che di giorno o di notte le comprano e le ributtano sulla strada come merce ‘usa e getta’, è nostro dovere spiegare forte e chiaro lo stato reale delle situazioni. Ed è altrettanto chiaro dovere delle istituzioni ascoltare chi ha competenze solide sui temi sociali. Dunque è anche un suo dovere, signor ministro. Grazie per l’attenzione.