“E’ brutto dirlo ma mi sto abituando a queste carneficine, diventate quasi quotidiane”. A parlare è il maresciallo capo Giuseppe Palmisano, comandante della motovedetta che venerdì sera ha tratto in salvo circa 400 persone. Ventinove, però, non ce l’hanno fatta: sono morte nella stiva, asfissiate dalle esalazioni del motore. Tra loro, un bambino di 1 anno. Un mercantile danese ha avvistato nella notte tra venerdì e sabato l’imbarcazione sulla quale viaggiavano, recuperando i passeggeri con l’aiuto della marina italiana.
Si teme invece che siano più di 60 le vittime del naufragio avvenuto in acque libiche a una trentina di miglia dalla costa, sempre venerdì. Sono stati i superstiti a spiegare all’equipaggio del mercantile che li ha recuperati, dirottato dalla guardia costiera italiana, di essere partiti da un porto libico in “più del doppio”.
Mentre è di ieri la notizia di un gommone semiaffondato, recuperato da due navi, un elicottero e un mercantile battente bandiere delle Bermuda, che ha imbarcato 66 migranti e di cui 5 privi di vita. Secondo le testimonianze dei superstiti sarebbero state ottanta le persone a bordo del gommone.
Le chiama carneficine quasi quotidiane, il maresciallo Palmisano: e non potrebbero esserci parole più adeguate.
Secondo l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (OIM), tra venerdì e sabato scorsi “sono stati registrati oltre 5.200 arrivi e si calcola che le vittime di naufragi e avvelenamenti da monossido di carbonio potrebbero essere oltre 100, mentre molti di più sarebbero i dispersi: 60 persone al largo della Libia a cui purtroppo si potrebbero aggiungere le 240 persone di nazionalità eritrea che, stando ai racconti di molti testimoni e familiari, sarebbero partite sempre dalla Libia lo scorso 27 giugno e mai arrivate a destinazione né soccorse in alto mare”.
“Dobbiamo trovare più risorse per Frontex Plus, ma il problema dell’immigrazione va risolto alla radice”, afferma il presidente del Consiglio Matteo Renzi da Maputo (Mozambico), prima tappa del suo viaggio in Africa. Ancora una volta, constatiamo che l’unica proposta del governo è l’ampliamento di un’agenzia per il controllo delle frontiere, attiva dal 2006, che evidentemente non è riuscita a impedire tutte queste carneficine. Il motivo è che non è il suo scopo: l’obiettivo dell’agenzia è infatti il coordinamento del pattugliamento delle frontiere esterne aeree, marittime e terrestri degli stati della UE e l’implementazione di accordi con i Paesi confinanti con l’Unione europea per la riammissione dei migranti respinti alle frontiere.
Salvare vite umane sarebbe invece lo scopo dell’iniziativa di un’imprenditrice italiana (attiva nel settore assicurativo) e di suo marito, che starebbe per avviare la missione Migrant Offshore Aid Station (MOAS): una nave di 43 metri, con personale specializzato a bordo, e due elicotteri che invieranno le immagini all’imbarcazione. Dicono di essere stati ispirati dalle parole di Papa Francesco, “contribuire in prima persona ad aiutare gli altri, con le risorse e le capacità che abbiamo”.
Secondo quanto riportato da redattore sociale “il Moas non vuole competere con le operazioni di salvataggio italiane e maltesi ma offrire assistenza alle persone in difficoltà fino all’arrivo delle autorità competenti.” Se questa è la missione è sicuramente lodevole, resta a noi il dubbio profondo che la salvezza delle persone debba e possa dipendere dall’atto di “beneficienza” di un privato (se di questo solo tratta).
Il punto è un altro. Tante persone scappano su imbarcazioni di fortuna da guerre, conflitti, povertà estrema. Le migrazioni, le fughe di profughi e potenziali richiedenti asilo sono profondamente legate al contesto internazionale e ai conflitti in corso sui quali è difficile, ammesso che sia possibile, intervenire nel brevissimo termine.
Nel breve termine si potrebbe fare altro, torniamo a ripeterlo ancora. Si potrebbero aprire dei canali umanitari con il coinvolgimento delle Nazioni Unite. Si potrebbe applicare la Direttiva Europea sulla Protezione Temporanea (2001/55/CE), che prevede “norme comuni a tutti gli Stati membri per la concessione di una protezione temporanea alle persone che fuggono dai loro paesi, in caso di afflusso massiccio di sfollati nell’Unione”.
Poi c’è tutto quello che avviene dopo gli sbarchi. “Bisogna utilizzare le caserme per l’accoglienza transitoria dei migranti, come strategia di supporto per fare in modo che gli immigrati trovino accoglienza e poi vadano via. Non dobbiamo tenerli qui, perché la quasi totalità non vuole stare in Italia”. Le parole del ministro dell’interno Angelino Alfano esplicitano una verità estremamente grave: le persone non vogliono rimanere in Italia, e il governo dovrebbe chiedersi il perché, piuttosto che pensare di predisporre altri centri di smistamento, come li definisce Sicilia Borderline, un’associazione impegnata sul territorio siciliano, in diretto contatto con tutti i problemi che stanno affrontando i comuni della regione.
“La situazione nei diversi centri di accoglienza sul territorio siciliano è rimasta sostanzialmente invariata. Emergenza, improvvisazione e approssimazione sono stati ancora una volta elementi distintivi nella gestione dell’accoglienza. In Sicilia il “sistema” di accoglienza dei richiedenti asilo, già collassato da mesi, è rimasto in una condizione di equilibrio instabile grazie ad un maggior numero di trasferimenti dei migranti verso altre regioni italiane. Le condizioni di vita all’interno del CARA di Pian del Lago a Caltanissetta restano totalmente inadeguate ed aggravate dal costante sovraffollamento della struttura. Inoltre, di fronte al centro governativo, si sono nuovamente formati accampamenti irregolari ed invivibili – tre in tutto – in cui abitano numerosi richiedenti asilo in una condizione di totale subalternità che li espone a rischi notevoli, come ad esempio il business delle residenze a pagamento”, scrive l’associazione (qui più info).
Secondo l’ultimo rapporto dell’Osce l’Italia è il paese in assoluto con il maggior flusso di immigrati, ma non è capace di integrarli nella società.