Oggi, 20 giugno, si celebra la Giornata del rifugiato, per ricordare tutte le persone in fuga a causa di guerre e persecuzioni. E’ questo, sommariamente, il messaggio che leggiamo su un foglio affisso all’ingresso del Cara (Centro Accoglienza Richiedenti Asilo) di Castelnuovo di Porto. Lo notiamo appena entriamo nella struttura, e lo vedremo altre volte, nei molti corridoi dell’edificio. Ed è un messaggio che, se contestualizzato, diventa piuttosto surreale: il Cara “ospita” infatti moltissimi richiedenti asilo, persone a cui certo non vanno ricordate le sofferenze e le difficoltà che accompagnano la vita di chi chiede protezione lontano dal proprio paese. Sono infatti proprio loro a essere fuggiti, ad aver vissuto sulla propria pelle queste sofferenze, che difficilmente dimenticheranno. Sarebbe piuttosto il caso di farle notare alle istituzioni, agli amministratori, e all’intera società civile che queste persone dovrebbe accogliere, proprio sulla base del loro diritto a richiedere protezione.
Richiamare l’attenzione su questo aspetto è uno degli obiettivi della mobilitazione nazionale lanciata lunedì scorso, 20 giugno, dalla campagna LasciateCIEntrare, che ha organizzato una serie di visite (circa 60 le richieste di accesso presentate alle Prefetture), per monitorare le condizioni dei migranti nelle varie strutture presenti sul territorio italiano. Un lavoro necessario: perché sono sempre di più “i centri offlimits a qualsiasi tentativo di monitoraggio delle condizioni d’accoglienza. Luoghi nodali per i respingimenti illegittimi che si stanno operando, o segnalati e denunciati dai migranti per ‘mala gestione’”, spiegava la Campagna alla vigilia dell’iniziativa. L’urgenza di queste visite è confermata da alcune risposte pervenute dopo l’inoltro delle domande di accesso: la Prefettura di Udine ha chiesto “di esplicitare, per ciascuno dei soggetti per i quali è stato richiesto l’accesso, l’interesse concreto, specifico ed attuale riconducibile ad una situazione giuridicamente tutelata”, ossia la tendopoli presente nella ex caserma Caverzerani, dove vivono circa 600 persone. Molto più esplicita la Prefettura di Taranto, che ha negato l’accesso all’Hotspot “non ritenendo opportuno, per il momento, consentire l’accesso dei giornalisti”. Un diniego privo di fondamento giuridico, come scrivono il segretario generale e il presidente della Fnsi, Raffaele Lorusso e Giuseppe Giulietti, e il segretario dell’UsigRai, Vittorio Di Trapani, sottolineando che “le giornaliste e i giornalisti devono poter entrare anche negli hotspot”. Il diniego è stato esteso anche agli Hotspot di Pozzallo e Lampedusa: “Luoghi dunque che restano off limits. Non si può negare il diritto dei cittadini e delle cittadine ad essere informati”, prosegue la nota.
Siamo entrati nel Cara nell’ambito di questa giornata di monitoraggio: Lunaria è infatti una delle associazioni che fanno parte della Campagna. Il Cara si trova in viale della Protezione Civile, a Castelnuovo di Porto, un comune di meno di diecimila abitanti a circa 40 chilometri da Roma. La struttura – un gigantesco blocco di cemento, basso e largo– è di proprietà dell’Inail, e veniva utilizzata per ospitare personale della Protezione Civile in caso di necessità. Adibita a CARA nel 2008, dal 7 aprile 2014 la sua gestione è in mano alla cooperativa Auxilium, su bando prefettizio.
All’esterno di questo edificio recintato non c’è nulla: non un bar, un’abitazione, o alcun tipo di servizio. L’impressione che si ha appena arrivati è di alienazione: sensazione che spesso accompagna la vista dei centri in cui sono “ospitati” (o meglio trattenuti) i migranti. Sono impressioni che prendono allo stomaco noi, che entriamo e poi usciamo per andare a casa: possiamo però solo immaginare lo sconforto e la frustrazione che accompagnano chi in questi posti ci passa giorni, mesi..a volte persino anni.
All’ingresso, di fianco a guardiania e reception, una stanzetta ospita tre militari e un carabiniere, in presidio costante. Nel centro, la cui capienza teorica è di 650 posti, ci sono attualmente 844 persone: 661 uomini, 157 donne, 26 minori. Le donne, i minori e i nuclei familiari sono al piano terra; gli uomini solo al primo piano. L’Eritrea è il paese più rappresentato, con 537 presenze complessive, seguito dal Mali con 57 persone, tutti uomini. Akram Zubaydi, direttore del CARA, ci spiega che all’aumento delle persone rispetto alla capienza ufficiale corrisponde un adeguamento del personale, sulla base delle corrispettive tabelle presenti nel bando. Attualmente le persone che lavorano nella struttura sono 117, tra amministratori, assistenti sociali, operatori specializzati e generici (qui lo schema del personale attualmente in servizio). Gli operatori si occupano di fornire il kit all’arrivo (spazzolino, dentifricio, ciabatte, tuta, asciugamano, lenzuola monouso, bagnoschiuma, carta igienica). Il kit per l’igiene personale viene fornito ogni tre giorni, insieme alle lenzuola monouso.
La cooperativa gestisce un servizio di navette che trasporta le persone alla stazione più vicina: è questo l’unico modo per spostarsi dalla zona industriale in cui è stato posizionato il Cara. In alternativa, chi ha una bicicletta usa quella. Chi non ce l’ha, va a piedi. Ogni giorno le persone ricevono un pocket money da 2,50 euro: non in soldi, ma in beni, spendibili all’interno del piccolo “emporio” presente nel centro. Si possono comprare biscotti, dentifrici, sigarette, tessere telefoniche, biglietti del treno e della metropolitana. Facendo un rapido calcolo, il pocket money non è sufficiente nemmeno per acquistare due biglietti metro (1,50 a biglietto). Nella grande mensa al piano terra si consumano i tre pasti quotidiani, forniti da un servizio di catering appaltato a Itaca Ristorazione.
I responsabili della struttura dividono idealmente gli “ospiti” in tre gruppi: uno, formato dalle persone in trasferimento verso altri centri -Cas o Sprar-; un altro, stanziali da molti mesi al Cara – alcuni di loro sono ricorrenti, ossia persone che hanno presentato ricorso dopo aver ricevuto il diniego della domanda di protezione-; un terzo, composto da 570 persone, prevalentemente di cittadinanza eritrea, che hanno aderito al programma europeo di relocation, la cui concreta realizzazione sta riscontrando diversi problemi. Su indicazione del ministero dell’Interno, il Cara sta infatti diventando, rapidamente ma per ora ancora ufficiosamente, un Hub, ossia un centro nazionale per i trasferimenti e le relocation. A confermarlo è lo stesso viceprefetto Leone, presente durante la visita. L’ordine dal ministero è infatti quello di liberare posti, per “ospitare” nel Cara quanti accettino di essere “ricollocati” in Europa. “All’arrivo in Italia le persone lasciano le proprie impronte, compilano la domanda di protezione attraverso il modello C3, e indicano se vogliono partecipare al programma di ricollocamento in Europa”, ci spiega Akram Zubaydi. “A occuparsi della procedura, e dell’informativa circa il programma di relocation, sono i funzionari Easo”, (European Asylum Support Office), precisa il viceprefetto Leone. “Da qualche tempo, i funzionari vengono direttamente nel Cara a fare l’informativa”, sottolinea Zubady, aggiungendo: “I richiedenti asilo possono naturalmente esprimere una preferenza circa il paese di destinazione. Ma non sempre è possibile dare seguito alle richieste: dipende dalle quote messe a disposizione dai vari paesi”. Alla domanda relativa alle tempistiche con cui le persone vengono avvertite del trasferimento, la risposta è scoraggiante: “La comunicazione può avvenire anche la notte prima del ricollocamento”. Una realtà disarmante, ancora di più se si pensa che le persone, da un giorno all’altro, possono essere spostate in paesi di cui non conoscono nulla, né la lingua, né la geografia, e in cui non hanno alcun legame né contatto. Perché, come è ormai palese, e come affermato in modo chiaro nei fogli del ministero dell’Interno affissi sulle bacheche presenti nei corridoi, “it is not possible to choose the country to wich you are relocated”, non si può scegliere il paese di ricollocamento. E’ anche possibile rifiutare il trasferimento, qualora il paese proposto non corrisponda alle esigenze del rifugiato. In tal caso, per la persona si apre un tempo illimitato di permanenza nel Cara. Come quello che stanno vivendo molte persone, in prevalenza eritree.
É il caso della 23enne che incontriamo nel Cara. E’ sdraiata sul letto della sua stanza, che condivide con il marito e un’altra coppia, con un bimbo di un anno. Lei è incinta di tre mesi. Intorno a lei, letti, e due tavolini con vari bagnoschiuma. Nient’altro. I letti sono coperti da lenzuola colorate: non sono quelle che danno al centro, di carta. Anche alle finestre ci sono lenzuola colorate, messe a mò di tende per difendersi dalla luce. L’ambiente è disadorno, alienante, sconfortante. Lo sguardo delle persone che ci vivono ce lo confermano.
Le due coppie fanno parte di un gruppo di persone sbarcate a Lampedusa il 4 dicembre 2015, che nell’isola hanno messo in atto una protesta contro l’obbligo di lasciare le proprie impronte digitali. Un rifiuto palesato da molti, che non vogliono, dopo l’identificazione, essere obbligati a fare domanda di asilo nel primo paese di ingresso, come prescrive il regolamento Dublino. “Non volevamo lasciare le impronte, perché non vogliamo essere costretti a restare in Italia” ci spiega J., il marito della giovane donna. “Ci hanno promesso che, se avessimo lasciato le impronte e aderito al programma di trasferimenti, ci avrebbero mandati subito nel paese da noi indicato. Abbiamo quindi interrotto la protesta. Ora siamo qua da sei mesi”. Questo, nonostante la promessa, e nonostante entrambe le coppie rientrino nella categoria di “soggetti vulnerabili”, dal momento che la donna è incinta, e l’altra coppia ha un bambino di un anno. Ma il piano di “ricollocamento” dei richiedenti asilo nei vari paesi europei, quello che doveva essere il punto nodale dell’Agenda per l’immigrazione definita dall’Unione dopo numerosi incontri, è al momento largamente disatteso: e questi sono i risultati, che pesano come macigni sulla vita delle persone.
Anche M., giovane eritreo, si trova nella stessa situazione. Ci spiega di essere fuggito dal proprio paese per scappare all’obbligo di prestare il servizio militare a tempo indeterminato. Di essere sbarcato a Lampedusa, per poi essere trasferito a Cagliari e di aver espresso il suo bisogno di protezione. Di aver risposto affermativamente quando gli hanno chiesto se voleva far parte del programma di relocation, e di aver indicato la Svezia come paese per il trasferimento. E poi ci dice una parola: “Aspetta”. E’ l’unica parola italiana che sa pronunciare bene. E’ l’unica che ha sentito moltissime volte. Nel Cara da sei mesi, non capisce perché deve rimanere chiuso in questa struttura lontano da tutto e tutti e perché gli hanno chiesto di indicare un paese in cui spostarsi, se poi lo bloccano qui. Non capisce perché, invece, altre persone vengono trasferite pochi giorni dopo l’arrivo. Domande che restano senza risposta.
Sono molti, soprattutto cittadini eritrei, a trovarsi in questa situazione. J. è sbarcato a Lampedusa, e poi è stato trasferito nel centro di prima accoglienza di Villa Sikania, in provincia di Agrigento. Altri sono stati trasferiti a Cagliari. Altri a Bologna. Nelle varie città i funzionari Easo li hanno informati circa il programma di relocation, hanno preso i loro dati, hanno scritto il paese indicato dai migranti per il trasferimento. Poi, sono stati portati qui. Quando chiediamo loro se vogliono segnalarci particolari problemi, rispondono solo: “Dobbiamo andare via da qui”. Nella loro voce e nei loro occhi, ma anche nei loro movimenti lenti, c’è molta frustrazione.
Trasferiti come pacchi, o bloccati in un limbo di cemento lontano da tutto.
Buona giornata del rifugiato.
Serena Chiodo