Sulla prima pagina di “Repubblica” compare un articolo dal titolo forse redazionale, ma non inatteso: “Il rom non esiste, torniamo a chiamarli zingari”, di Guido Ceronetti (La Repubblica, 28 novembre 2014). Il clima è quello che è. Pochi giorni fa sul settimanale gemello (anche su internet), un altro titolo, certo redazionale, suonava così: “Gli italiani non sono razzisti, ma abbandonati” (qui), etichettato ed attribuito a Marzio Barbagli. Un passaggio interessante, nella lunga tradizione studiata da Teun Van Dijk, da “Non sono razzista, ma..” a “Non sono (loro) razzisti, ma…”. Lo slogan è recente ma sta già dilagando, e rischia di spostare il dibattito civile: come se prevalesse, in chi critica questo modo di discutere, l’attribuzione di razzismo alle persone, singole o in gruppo, e non si esprimessero invece, come mi pare che si stia facendo anche se da posizioni evidentemente minoritarie e inascoltate, preoccupazioni per il dilagare di un razzismo come fenomeno sociale. Provo a tradurre. Il problema non è se si debba o no dire di qualcuno che è razzista, ma se ci sia o no razzismo in aumento nella società italiana. La risposta alla seconda domanda mi pare netta, e dovrebbe preoccuparci più di precipitose attribuzioni o assoluzioni (prevalenti, queste ultime).
Ora, che un corsivista inviti (con i toni discutibili che ognun può constatare) a “chiamarli zingari” è nell’ordine delle cose e delle attese: è, cioè, banale, come quel corsivista si picca da decenni di non essere. Che vi si aggiunga che “il rom non esiste” è uno slogan che il quotidiano fondato da Scalfari forse poteva lasciare ad altri. Che il quotidiano scelga di mettere il pezzo in prima pagina, invita a interrogarsi sulla qualità del pezzo e la sua credibilità.
L’articolo comincia con una citazione dal Talmud: “la vita e la morte sono in mano alla lingua”. Una massima che si presta allo sprofondamento interiore come alle realizzazioni più banali. Ceronetti segue la seconda strada, e scende a precipizio dai vertici aerei del Talmud all’uso più dozzinale e aggressivo del purismo: “Io vorrei sradicare dall’uso pubblico vulgato l’insulso Rom e ristabilire il perfetto italiano zingari”. La nozione di “perfetto italiano” sposta la discussione linguistica da ogni sospetto di scientificità, in un ambito che credevamo relegato alle peggiori rubriche “si dice…non si dice..”. Ma si accetti pure questo livello basso di discorso; c’è, è vero (chi lo nega?) un perfetto italiano, che permetteva di dire serva di una lavoratrice domestica, svergognata della ragazza vicina di casa e zingaro di chi non si autodefinisce tale. Me lo ricordo bene, e ricordo quanto mi vergognavo a sentir parlare così. Oggi le prime due parole sono in disuso, e non perché condannate, come immaginano furbi e ignari, dal tribunale del politicamente corretto, ma perché la lingua è tante cose, anche negoziazione sociale, anche abbandono di locuzioni perfette ma improprie; a volte per discriminazioni in disuso, altre perché difese (ma col rischio del ridicolo) da un purismo titanico quanto impotente, che immagina di potere sradicare una parola dall’uso.
C’è, è vero, più di una sfumatura (esibita) di ironia nel discorso di Ceronetti. Ma l’affettazione è contraria ai tentativi di ironia, e la ridicolizza, come mostra tutto un filone sapienziale ebraico-orientale che pure dovrebbe essere noto all’elzevirista di “Repubblica”. Perché l’ironia non può essere messa al servizio di un autocentrarsi incontrollato, come quello che intride questo pezzo, con risultati penosi e imbarazzanti: non fosse per gli isolotti di lirico accodarsi al senso comune più borgheziano: “pretendere che zingari e zingare non rubino è come volere che un’ape, posandosi sulla tua palpebra, non ti faccia vedere il Planetario”. Perché qui finisce l’imbarazzo nel lettore, e subentra un sospetto: è forse questo nucleo argomentativo, che ha spinto “La Repubblica”, a ospitare questo pezzo in prima pagina, come il 7 maggio 2007 ospitò una famigerata lettera di tale Poverini, dal titolo “Aiuto, sono di sinistra ma sto diventando razzista”? Non sembra infatti che la qualità dell’articolo possa risiedere in svolazzi come il seguente, a metà tra il tono peggiore di “amici miei” e il velleitarismo argomentativo : “posso ziganeggiare a lungo, rivoltando letture e memorie, e provare (!, ndr) che il termine Rom, volendo designare una comunità zingara, è del tutto inutilizzabile. E’ improprio e di uso limitato nella loro stessa lingua”, etc. Provare che un nome usato, soprattutto da chi così si autodefinisce, sia inutilizzabile, a me sembra un forma preoccupante di delirio di onnipotenza, che convive con la sfilata dei consueti stereotipi stigmatizzanti, nei confronti di una popolazione che sta subendo un processo articolato di deumanizzazione: l’odore nauseabondo del cibo, la prolificità incontrollata, l’onestà dei “sedentarizzati”, la delinquenza innata, la preterizione sui diritti delle donne, indicibilmente offesi. E ci voleva un Ceronetti per ripetere queste amenità? Aggiungendo, di suo, un’argomentazione – si fa per dire – linguistica, che gli conquista gli entusasmi di “Libero” e l’inappuntabile ridimensionamento di uno storico della lingua, come Federico Faloppa (qui l’intervento su Carta di Roma).
Non sembra di poter trarre da questo corsivo stimoli o insegnamenti: chi l’ha scritto non sembra appartenere a una schiera eletta di sapienti, più o meno talmudisti, quanto a una tradizione civile nostrana angusta e presuntuosa, descritta perfettamente quasi duecento anni fa da uno che di lingue e di società civile qualcosa intendeva. “Gli scrittori non furono paghi ormai di far millanteria d’ingegno in un crocchio d’iniziati; ma si diedero maestri alle moltitudini (…)lo scrittore s’illude degli sforzi che fa tirando una nave la quale, cacciata inanzi da ben altre forze, lo trae seco verso regioni c’egli non sa”. Carlo Cattaneo sarà meno suggestivo del Talmud banalizzato, ma indica in chi millanta volontà di sradicamento (linguistico) di dubbie possibilità la subalternità ai venti di chi aizza all’odio razziale e dei (pochi, finora, ma in rapida crescita) balordi che quell’odio traducono in violenza fisica.