La classe “sperimentale” prima A della scuola media Besta di Bologna è l’inizio delle “classi separate” in Italia? Il caso è esploso sulla stampa nazionale quando il Consiglio di Istituto della scuola bolognese ha protestato per la decisione presa dal preside, Emilio Porcaro, e dal Consiglio dei docenti della scuola media. Alcuni ragazzi stranieri sono stati inseriti in una classe – che si chiama “prima A sperimentale” – dove è a loro dedicato un progetto di istruzione specifico sull’apprendimento linguistico. Si tratta, infatti, di ragazzi arrivati da pochi mesi in Italia, per ricongiungersi con i genitori che lavorano qui. Vengono da diversi paesi, parlano lingue diverse, e nessuno di loro sa esprimersi bene in italiano. Anzi, la maggior parte non lo parla affatto. Per questa ragione, ha spiegato il dirigente scolastico, è stato deciso in collaborazione con alcuni insegnanti di studiare questo metodo di “ingresso soft” a scuola. Prima si passa dalla “classe sperimentale”.
Dall’allarme al “caso scuola”
Dopo i primi articoli di allarme e denuncia, i toni della stampa sono cambiati. Il preside, conosciuto per essere un insegnante di larghe vedute e “sicuramente non un razzista”, come hanno testimoniato genitori e insegnanti intervistati dai giornalisti, ha spiegato il suo punto di vista: “Non si tratta di una classe separata, ma di una classe ponte – ha detto – è un ambiente educativo speciale che abbiamo costruito per venire incontro a esigenze molto particolari”. Porcaro ha infatti spiegato che i ragazzi inseriti nella prima A sperimentale hanno due caratteristiche: la prima è che la loro iscrizione è arrivata molto tardi, ad agosto, quando le altre classi erano già formate. La seconda è che – a detta del dirigente scolastico della Besta – alcune scuole del comprensorio a cui i genitori avevano tentato di segnare i propri figli li avevano rifiutati. “Io non me la sono sentita”, ha sottolineato Porcaro. A quanto pare, la Besta è conosciuta per essere una scuola aperta e accogliente. “I ragazzi seguono già alcune materie con i compagni delle altre classi – ha spiegato il professore – e la prima A sperimentale è transitoria: quando avranno acquisito le competenze adatte saranno integrati nelle altre classi”.
Insomma tutto è bene quel che finisce bene. E la scuola Besta sta rapidamente diventato un “caso scuola” a livello nazionale. Ma davvero l’idea di Porcaro e dei suoi insegnanti, assaliti da una situazione senza dubbio difficoltosa, è stata la migliore? E qual è il giusto piano su cui discutere di un quadro come questo? Quante e quali sono le verità e quante e quali le piccole (e comode) bugie?
La protesta dei Consigli di Istituto
Una prima indicazione viene dai presidenti dei Consigli di circolo e di Istituto della provincia di Bologna che hanno scritto una lunga lettera per protestare contro la decisione della “classe sperimentale”. Il “caso Besta” secondo loro mette in luce alcune “disfunzioni” della vita scolastica italiana, “nel merito e nel metodo”. Il merito, scrivono i presidenti dei Consigli, è che in Italia si fa accoglienza nei confronti degli alunni di origine straniera a parole. Molto meno nei fatti. “E’ di fondamentale importanza che si ri–attivi una seria “politica scolastica per l’inclusione – si legge nella lettera – con risorse economiche ed umane adeguate che permetta di accogliere i ragazzi stranieri nelle classi costruendo nel contempo percorsi di alfabetizzazione. Ciò è possibile solo con una seria programmazione nella costituzione delle classi iniziali del ciclo scolastico”.
“Se le classi vengono stipate al limite (e purtroppo a volte anche oltre) della capienza e della sicurezza – continua la lettera – come accogliere in modo dignitoso e fruttuoso i ricongiungimenti in corso d’anno? Chiediamo che almeno nelle scuole periferiche (nei pressi delle quali avviene la quasi totalità dei ricongiungimenti) siano costituite classi prime con 20/22 alunni”. Una cosa che permetterebbe di “accogliere i ricongiungimenti in corso d’anno”, i quali – specifica la lettera, smentendo in parte quanto sostenuto dal dirigente scolastico del Besta – “non avvengono “piovuti dal cielo”, ma di cui si è già da tempo a conoscenza (basti ricordare che solo per quest’anno sono attesi almeno 400 ragazzi in età di obbligo scolastico)”. Insomma, è vero fino ad un certo punto che non si poteva prevedere una certa quantità di iscrizioni ad agosto. E, forse, una seria programmazione scolastica soprattutto in alcuni contesti geografici dovrebbe tenerne conto per fare bene la scuola.
Poi i presidenti dei Consigli di Istituto mettono in chiaro la questione del “metodo”, che poco ha a che fare specificatamente con l’idea di una “scuola interculturale”, ma che ha a che fare molto da vicino, invece, con l’idea di una scuola democratica. Il conflitto, infatti, riguarda chi avrebbe dovuto prendere la decisione: secondo il dirigente trattandosi di un “progetto” non doveva essere coinvolto il Consiglio di Istituto. Che invece rivendica le sue prerogative. Una difesa “sindacale”? Forse. Ma il punto di vista dei presidenti del Consiglio di Istituto non è banale quando scrivono “Il Consiglio d’Istituto è un organo strategico, perché raccoglie tutte le componenti della scuola, e le sue funzioni dovrebbero essere salvaguardate da chi ha a cuore il destino della Scuola Pubblica, tanto più nel momento in cui ne vengono minacciate le fondamenta”. Insomma: comprensibile la necessità di “mettere una toppa” a una circostanza emergenziale. Ma di emergenza in emergenza – sembrano dire i presidenti dei Consigli – quale prezzo viene pagato in termini di agibilità della scuola pubblica?
Il silenzio del Ministero
Fin qui, i fatti. Che finora, sembra di capire leggendo le cronache dei giornali e il “discorso pubblico”, sembrano dare ragione al dirigente scolastico e agli insegnanti che hanno scelto la via della “classe ponte” per permettere una migliore integrazione tra gli alunni. La scuola Besta, insomma, si sta preparando a diventare un esempio da seguire.
Ma in questo “discorso pubblico” – si capisce immediatamente – mancano alcune voci. E sono delle mancanze gravi, inspiegabili. La prima è quella del ministero: cosa ne pensa il ministro Carrozza, o almeno il sottosegretario Marco Rossi Doria che ha la delega all’integrazione degli alunni immigrati? Incredibilmente non si torva traccia di un loro commento su una questione spinosa, delicata eppure importante. Non perché il caso di Bologna sia l’unico in Italia in cui si decide di creare delle “classi speciali” per “risolvere” la questione della elevata presenza di alunni con cittadinanza straniera e con problemi di alfabetizzazione delle lingua italiana. Ma se non altro perché il fatto che tutto questo stia capitando proprio a Bologna, Comune tradizionalmente di sinistra e all’avanguardia nelle politiche scolastiche, ha un impatto simbolico e politico enorme: se si fa a Bologna, allora si può fare dappertutto. Cosa ne pensa l’organo politico nazionale che deve dare direttive e indicare una modello? Vanno bene le classi ponte? Sono una buona idea?
L’Ufficio scolastico che “non sa”
Forse al ministero pensano che se l’Ufficio scolastico regionale non ha detto nulla, si tratta di un progetto condivisibile. Ed è un po’ quello che ha detto il viceministro Galletti, l’unico a intervenire dal Miur, sostenendo che “non è una cosa da condannare, come ha chiarito il vicedirettore dell’ufficio scolastico regionale si tratta di un ambiente di apprendimento temporaneo, vigileremo”. Peccato che il vicedirettore dell’Ufficio, che si chiama Stefano Versari ed è laureato in Ingegneria anche se da anni ormai si occupa dell’Ufficio scolastico regionale emiliano – dove all’inizio trattava gli aspetti finanziari per arrivare, col tempo, a provvedere anche alle questioni pedagogiche – ha sostenuto all’inizio di “non sapere nulla”.
Solo dopo lo “scandalo” ha convocato una conferenza stampa con Porcaro, elogiando “una scuola che si mette in gioco”, perché “l’italiano non si impara per osmosi”.
Ma allora i dubbi sono legittimi: se nessuno sapeva, nemmeno l’Ufficio scolastico regionale, che tipo di sperimentazione è questa? Chi ha detto che è “temporanea”, e “temporanea” per quanto? Dove sta scritto? Tutti gli alunni ne erano consapevoli dall’inizio dell’anno, o questo lento slittamento semantico da “prima A sperimentale” – che ha tutta l’aria di essere una vera e propria classe – a “classe ponte e temporanea” è dovuto alle pressioni dei media? E verranno tutti lentamente integrati, o solo chi ha raggiunto dei risultati?
Si potrebbe dire che se sono stati “i media” a fare pressione, ben venga: sembrerebbe un buon funzionamento del dibattito pubblico. La pressione dell’opinione pubblica che obbliga a un cambiamento – reale o no – “in corsa”.
Eppure il problema sembra essere ancora presente tutto intero. Perché le pressioni dell’opinione pubblica rischiano di essere più che deboli se poi non esiste un discorso forte, strutturato e “integrato”. E il discorso dovrebbe rispondere alla domanda: qual è la via italiana all’integrazione dei ragazzi con cittadinanza non italiana nella scuola?
Ma le leggi ci sono
Il bello è che le indicazioni esistono, e sono tutte in direzione “ostinata e contraria” rispetto la generosa sperimentazione della scuola Besta. Ci sono leggi e (soprattutto) circolari che su questo tema hanno sempre ribadito un concetto: “equilibrata distribuzione”. Lo spirito, lo si condivida o no, è quello dell’evitare che si creino classi con maggioranza di alunni stranieri (già realtà in alcune scuole italiane). Ma il concetto è un caposaldo. E una classe di soli alunni stranieri viola questo principio. Come andrebbe prima di tutto indagata (e sanzionata) la pratica delle scuole che avrebbero rifiutato l’accesso a scuola dei ragazzi arrivati in Italia in estate.
Poi ci sono gli indirizzi culturali. Non che il ministero sotto questo punto di vista abbia prodotto tonnellate di materiali. Ma qualcosa c’è. E l’indirizzo “centrale” è contrario alla creazione di “classi separate” – scelta fatta da altri paesi europei – e incoraggia invece l’apprendimento tra pari, in un contesto egualitario e di “scuola comune”. La “prima A sperimentale” si pone fuori da questo seminato.
Cambiare strada è ovviamente un diritto. Ma che almeno chi guida, in questo caso il ministro Carrozza, i suoi viceministri e i rappresentanti locali del ministero, siano consapevoli del contesto. E se decidono di fare retromarcia siano almeno in grado di informare i passeggeri sulla nuova meta.