I cosiddetti “buoni spesa” stanno facendo nuovamente discutere. Due sentenze di due Tribunali diversi, quello civile di Roma e il TAR dell’Abruzzo, hanno rimesso in discussione i criteri di assegnazione degli stessi, dichiarando discriminatorie le delibere del Comune di Roma e del Comune dell’Aquila. Le due decisioni si muovono su due assi fondamentali: il primo, quello costituzionale, che ci riporta al principio di uguaglianza; il secondo, invece, quello del diritto a soddisfare un bisogno primario, come quello alimentare, per le persone vulnerabili. E sono due principi universali, tanto che discriminazione ed esclusione dai bandi, non sono soltanto per i cittadini stranieri presenti sul territorio, ma anche per i cittadini italiani residenti altrove, ma domiciliati abitualmente in altre città, e rimasti bloccati dall’inizio dell’emergenza.
Cerchiamo di ricostruire quanto è accaduto in questi frenetici giorni di pandemia, durante i quali l’acuirsi delle difficoltà economiche delle famiglie italiane e non, ha portato a dover ricorrere anche alle vie legali per convincere i comuni a recedere da queste disposizioni discriminatorie.
Ci eravamo lasciati all’inizio di aprile, quando i 7904 comuni italiani stavano organizzando la distribuzione delle risorse (fondi stanziati dal Governo e dalla Protezione civile con l’Ordinanza 658 del 29 marzo per far fronte all’emergenza Covid 19), quale forma di “solidarietà alimentare” rivolta ai soggetti più vulnerabili. I Comuni si erano così ritrovati dover definire i criteri di accesso al fondo in maniera autonoma, e in tutto il nostro Paese si sono registrate situazioni molto diverse tra loro. Purtroppo, alcuni comuni si erano già affrettati a deliberare dei bandi con criteri escludenti e discriminatori. Nei giorni a seguire, si erano moltiplicate le segnalazioni. Alcuni comuni avevano inserito il limite del permesso di soggiorno CE di lungo periodo (come i Comuni di Ferrara o dell’Aquila), oppure avevano escluso del tutto gli stranieri (come il Comune di Ventimiglia). Nella maggior parte dei casi, gli avvisi prevedevano il requisito della residenza anagrafica, escludendo una buona parte della popolazione, tra cui i senza fissa dimora anche italiani, i richiedenti asilo e gli stranieri irregolari.
A tale proposito, Asgi, Avvocati per niente, Cgil Umbria, Caritas Ambrosiana e Action Aid avevano diffuso un appello (noi ne avevamo parlato qui) per sottolineare che gli interventi straordinari dovevano essere inclusivi, ovvero rivolti a tutti coloro che hanno subito gli effetti dell’emergenza, indipendentemente dalla nazionalità, dal titolo di soggiorno, dalla durata della permanenza precedente sul territorio. Anche l’UNAR aveva indirizzato una lettera al Presidente dell’ANCI (noi ne avevamo parlato qui), auspicando che, le misure urgenti di solidarietà alimentare fossero dedicate soprattutto alla platea dei potenziali beneficiari più a rischio, e in particolar modo ai soggetti senza fissa dimora, alle comunità rom, sinte e caminanti e a tutti coloro che, pur vivendo in situazioni di estremo disagio economico e abitativo, non fossero in possesso di residenza anagrafica o di cittadinanza italiana (si vedano qui le linee guida).
Ma i sindaci come hanno reagito?
Una buona parte di amministrazioni comunali ha deciso di andare avanti per la sua strada non modificando i bandi e ignorando gli appelli, altre hanno fatto dei piccoli passi indietro, altre ancora hanno deliberato bandi “esemplari” quanto a trasparenza, inclusività e rispetto dei diritti. Tra i comuni virtuosi, ad esempio, il Comune di Avellino, quello di Palermo, di Bologna e di Altamura, i quali hanno esteso il bonus spesa persino ai dimoranti temporanei, senza distinzione alcuna. Nel circondario di Torino, si sono invece distinti ben quindici piccoli Comuni che hanno scelto di estendere l’accesso alla misura a tutta la cittadinanza domiciliata nel territorio comunale.
In altri casi è stato necessario promuovere ricorsi anti-discriminazione.
E’ il caso di Roma e di L’Aquila, per le quali si ha già una sentenza, e Ferrara, dove vi è un’azione in giudizio nei confronti del Comune che, nonostante il tentativo di risoluzione stragiudiziale, si è rifiutato di modificare i requisiti previsti nel bando (è partita anche una petizione su change. org promossa da alcuni attivisti di Occhio ai media di Ferrara, disponibile qui).
Il Comune di Roma aveva escluso i cittadini stranieri privi di permesso di soggiorno dall’accesso ai buoni pasto. Il Tribunale di Roma ha accolto, con decreto inaudita altera parte, la domanda cautelare presentata con ricorso ex art. 700 c.p.c. da parte di un nucleo familiare filippino, con tre minori, sprovvisto di permesso di soggiorno e di residenza (il ricorso è stato sostenuto grazie ad alcuni avvocati Asgi), ad essere ammesso al beneficio del buono spesa per le famiglie in difficoltà introdotto dal Comune di Roma. Il Giudice, nel ricostruire la disciplina dei diritti fondamentali dei cittadini stranieri, tiene conto dell’importante evoluzione giurisprudenziale intervenuta soprattutto in materia di diritti sociali degli stranieri, ribadendo il principio affermato da tempo dalla Corte Costituzionale inerente il “carattere universalistico dei diritti umani fondamentali”, per cui “esiste un nucleo minimo” di questi diritti che non può essere violato e “spetta a tutte le persone in quanto tali, a prescindere dalla regolarità del soggiorno sul territorio italiano”. Si legge, infatti, nel provvedimento che “anche nella disciplina dei diritti sociali, nella quale pure la discrezionalità del legislatore è molto più ampia che nella disciplina dei diritti di libertà – perché sono richiesti l’uso e la allocazione di risorse scarse – il diverso trattamento deve essere giustificato da ragioni serie e non deve, comunque, violare quel nucleo di diritti fondamentali che, appunto, vengono definiti “inviolabili”.
Il Tribunale Amministrativo Regionale abruzzese ha emesso, invece, un decreto cautelare sul bando per i buoni alimentari del Comune dell’Aquila, con il quale non si sospende la distribuzione dei buoni alla popolazione, ma si obbliga il Comune a permettere che una famiglia non residente nel territorio comunale possa fare domanda per gli aiuti governativi. Il decreto ha un suo peso in quanto evidenzia l’esclusione di una famiglia di tre persone italiane (il ricorso è stato promosso insieme alla Rete solidale, costituita da comitato 3e32, Arci L’Aquila, Comunità 24 Luglio, Fraterna Tau e United L’Aquila). Il fatto che tutti i membri fossero residenti in un comune pugliese, li aveva ingiustamente esclusi dal bando. Nel decreto cautelare, il giudice del Tar ha citato proprio le linee guida dell’UNAR. Tuttavia, il sindaco Pierluigi Biondi, anziché ammettere la famiglia ricorrente al beneficio, come predispone il decreto d’urgenza adottato dal presidente del Tar, ha deciso di sospendere la consegna dei buoni spesa tout court, “in virtù del fatto che i parametri di assegnazione delle risorse agli Enti sono stati commisurati al numero di residenti”, fino al 20 maggio prossimo, quando è stata fissata l’udienza cautelare. “Mi rendo conto del disagio, ma non dipende da noi”, si giustifica il sindaco. “Il Comune ha lavorato in modo chiaro, utilizzando la logica e il buon senso. Evidentemente non è piaciuto a qualcuno, a persone che avrebbero potuto tranquillamente fare domanda nei comuni di residenza, considerato che la misura è nazionale, e che invece hanno ritenuto più utile creare un possibile allarme sociale visto che molte famiglie aquilane stanno aspettando il buono con ansia”.
Una scelta incomprensibile. In realtà, non vi è alcuna necessità di bloccare la erogazione dei buoni. Né vi sono ragioni giuridiche per negare una misura di soccorso urgente. Il Sindaco, invece, piuttosto di ammettere l’errore, come tanti altri sindaci in questo momento, e cercare di rimediare facendo un passo indietro, sta giocando sulla pelle delle persone in difficoltà, con il rischio evidente di contribuire al crearsi di tensioni sociali.
Intanto oggi si terrà l’udienza in sede cautelare a Ferrara e l’8 luglio comincerà la fase di merito.
A pensarci, basterebbe solo un po’ di buon senso. Chi si trova sul territorio di un comune, a prescindere dalla sua provenienza o nazionalità, deve ricevere aiuto là dove si trova, non potendo tornare nel proprio comune di residenza né potendo chiedere aiuto altrove.