31.340 posti di accoglienza che hanno accolto 36.905 persone in 776 progetti presentati da 578 Comuni (ma i Comuni coinvolti a vario titolo sono nel complesso 1.549). E circa 10mila operatori qualificati impiegati, di cui 1.428 full time e 7050 part-time. Sono i numeri dell’Atlante Sprar 2017, illustrati oggi dalla Direttrice del Servizio Centrale Daniela Di Capua, nel corso della presentazione organizzata presso la sede dell’Anci a Roma. Numeri che hanno contraddistinto un modello di accoglienza diffusa sul territorio (8 in media le persone accolte per unità di accoglienza), gestita grazie alla collaborazione tra Ministero dell’Interno, enti locali e organizzazioni di terzo settore. Numeri che sono per altro cresciuti nel 2018: quelli anticipati oggi parlano di 35.881 posti di accoglienza disponibili, di 877 progetti finanziati diretti da 754 enti locali, ma realizzati grazie a una rete che coinvolge ormai 1.849 amministrazioni.
Un sistema di accoglienza pubblico, originale nel panorama europeo proprio per il coinvolgimento diretto degli enti locali, che meriterebbe di essere salvaguardato per le sue caratteristiche: diffusione sul territorio, piccole dimensioni, interventi di inclusione sociale, monitoraggio accurato delle spese sostenute. Piccole dimensioni dei progetti di accoglienza e processo volto a facilitare l’autonomia delle persone accolte, sono elementi necessari e indissolubili per garantire la qualità e il successo dell’accoglienza. E lo Sprar ha fatto da questo punto di vista significativi passi in avanti proprio negli ultimi anni. Tra i beneficiari di interventi di inclusione sociale, anche grazie alla destinazione di un minimo del 7% del budget complessivo di ogni progetto, nel 2017 25.480 persone hanno frequentato corsi di italiano, 15.980 hanno partecipato a corsi di formazione o svolto tirocini professionali e sono 4.965 le persone accolte che hanno trovato un lavoro al momento dell’uscita dal progetto di accoglienza.
Ma proprio queste caratteristiche si trovano sotto la scure del Dl 113/2018 che la prossima settimana andrà in discussione in Aula alla Camera, dopo essere stato approvato dal Senato (con un voto di fiducia).
La preoccupazione per le sorti di un sistema pubblico di accoglienza faticosamente costruito negli anni è stata espressa molto chiaramente da parte di tutte le persone intervenute, a partire dal presidente della Fondazione Cittalia Leonardo Dominici che ha riferito degli emendamenti proposti da Anci al decreto, nel tentativo di salvaguardare l’esperienza fatta sino ad oggi.
Particolarmente esplicito è stato il sindaco di Prato, Matteo Biffoni, Delegato Anci all’immigrazione: “Tutto il lavoro fatto rischia di essere messo in discussione”. Il combinato disposto delle norme contenute nel decreto legge n.113, con il nuovo capitolato di appalto per i centri di accoglienza presentato una settimana fa (che abbassa i costi massimi pro die pro capite per l’accoglienza, favorendo di fatto gli enti che si candidano a gestire le grandi strutture), prefigura l’opzione per i Cas (i centri di accoglienza straordinaria gestiti dalle Prefetture) di grandi dimensioni e taglia esattamente quegli interventi che sono finalizzati a favorire l’inclusione sociale dei richiedenti asilo, in primis l’insegnamento della lingua e l’orientamento al lavoro.
Una scelta che non ha nessuna ratio, secondo Biffoni, che spera in una modifica del testo del decreto nel corso della discussione alla Camera. Anche perché, ha ricordato il Sindaco, le persone espulse dal sistema di accoglienza “non scompariranno”: resteranno sul territorio provocando un aggravamento del carico dei servizi sociali dei Comuni. Significherebbe riportare la lancetta dell’orologio indietro di 10 anni. E molti Sindaci, pur appartenenti ai diversi schieramenti politici, sono preoccupati della ricaduta che il decreto è destinato ad avere sui loro territori. Da qui l’attivazione di Anci per la presentazione di alcuni emendamenti al decreto. Anci chiede di prevedere il preventivo assenso scritto dei Sindaci all’apertura di nuovi centri di qualsiasi natura; di consentire l’accesso al sistema Sprar dei richiedenti asilo vulnerabili e dei titolari di protezione umanitaria attribuita prima dell’entrata in vigore del decreto (il decreto prevede che i richiedenti asilo siano ospitati solo nelle strutture gestite dalle prefetture); l’introduzione di un permesso speciale di soggiorno per i richiedenti che pur vedendosi negata la protezione internazionale si siano distinti per “comprovata volontà di integrazione”.
Un tentativo estremo di limitare i danni di un decreto che cancellando la protezione umanitaria e indebolendo il sistema di accoglienza gestito dai Comuni, oltre a peggiorare le condizioni dei richiedenti asilo, rischia di moltiplicare i problemi e i conflitti sui territori che di certo non li rendono e non ci rendono più “sicuri”.