Rinviati a giudizio con l’accusa di falsità documentali e sfruttamento della condizione di irregolarità: si è conclusa così l’udienza preliminare di un processo che potrebbe fare storia, o sicuramente essere da esempio per tante, troppe situazioni presenti su tutto il territorio nazionale.
Lo scorso 8 gennaio a Latina si è infatti svolta l’udienza preliminare di un processo che vede imputate cinque persone: un imprenditore italiano, proprietario di un’azienda agricola a Fondi (LT), e quattro ‘intermediari’, tre cittadini indiani e un pakistano. Dietro la promessa del permesso di soggiorno, i cinque estorcevano migliaia di euro ai lavoratori stranieri – in prevalenza indiani sikh – falsificando poi i documenti utili per il rilascio del permesso. Una truffa perpetrata per anni in un contesto di gravissimo sfruttamento, come documentato da ricerche e approfondimenti: già nel 2013 l’associazione In Migrazione denunciava le allarmanti condizioni di vita dei cittadini sikh nell’Agro Pontino, con particolare riferimento all’ambito lavorativo. Un aspetto approfondito dalla stessa associazione l’anno seguente nel dossier Doparsi per lavorare: “I braccianti impegnati nelle campagne vivono condizioni di lavoro talmente dure che sovente sono costretti a ricorrere all’uso di sostanze dopanti come rimedi antidolorifici auto-somministrati”, denunciava l’associazione, secondo la quale questo “carico di lavoro disumano” farebbe parte di un mercato “saldamente in mano a italiani senza scrupoli che si servono di indiani per la vendita al dettaglio”. Proprio In Migrazione si è costituita parte civile nel processo, insieme alla Flai-CGIL e a un gruppo di lavoratori – 30 indiani e un egiziano- che si sono ribellati allo sfruttamento. “È la prima volta in Italia – scrive su Zeroviolenza Marco Omizzolo di In Migrazione – che in un processo di questo genere viene accolta, come parte civile, un’associazione e un’organizzazione sindacale. Un precedente che può contribuire a scardinare, anche in sede giudiziaria, il sistema rodato di sfruttamento che arricchisce padroni privi di scrupoli a discapito di migliaia di braccianti stranieri”.
Lo sfruttamento dei lavoratori migranti è infatti una condizione purtroppo strutturale all’interno del settore agricolo, un “sistema rodato” come lo definisce Omizzolo: in linea generale, in tutta Italia, da nord a sud, si rilevano pratiche spesso al limite dello schiavismo (si veda, ad esempio, Amnesty International, Cgil, Medu). Negli anni sono nate diverse campagne proprio contro lo sfruttamento del bracciantato (ad esempio Campagne in lotta, Sos Rosarno, Comitato NoCap Nardò), e ci sono state anche inchieste e processi (ad esempio qui, qui, qui e qui). Dal 2011 il caporalato è diventato reato penale, con l’introduzione dell’art. 603-bis nel Codice penale.
Nel suo dossier sullo sfruttamento lavorativo dei migranti, Amnesty criticava la normativa nazionale, che “pone i lavoratori migranti nella condizione di non poter chiedere giustizia per salari inferiori a quanto concordato, per il mancato pagamento o per essere sottoposti a lunghi orari di lavoro”: in una parola, in una condizione di forte vulnerabilità, data dal fatto che le leggi contenute nel Testo Unico sull’immigrazione legano l’ingresso e il soggiorno regolare in Italia al possesso di un regolare contratto di lavoro. Inoltre, mancano totalmente controlli da parte dello stato, come faceva notare tempo fa, parlando della Puglia, Giuseppe Deleonardis, segretario della Flai Cgil di Bari: “Dal 2006 neanche un’azienda ha avuto il blocco dei finanziamenti pubblici. Eppure in Puglia la stragrande maggioranza delle aziende agricole utilizza migranti sfruttati nei campi e lavoro nero”.
I passi da fare, quindi, sono ancora molti. Ma, nel frattempo, si iniziano a raccogliere i frutti: in questo caso, delle proprie battaglie.