OsservAzione da il suo contributo all’ampio dibattito che si sta sviluppando attorno alla necessità di un testo normativo specificamente dedicato ai rom e ai sinti. Si evidenzia come la riaffermazione di diritti e tutele di valore generale in un testo dedicato a una sola minoranza rischia di creare ambiguità e fraintendimenti su un nodo decisivo, quello del carattere universale dei diritti. Il pericolo è cioè quello di distinguere e separare i rom e i sinti, presentandoli come vittime “eccezionali” o comunque diverse, laddove l’obiettivo dovrebbe essere quello di riportarli entro un contesto di tutela per tutti e per ciascuno.
OSSERVAZIONE E IL DIBATTITO SUL RICONOSCIMENTO DEL ROMANES E DELLA MINORANZA ROM E SINTA
Un ampio numero di associazioni rom e pro rom (tra cui la Federazione Rom e Sinti Insieme), affiancate da intellettuali, artisti e uomini politici, si stanno mobilitando ormai da molto tempo per raccogliere firme a favore di una legge per la tutela e le pari opportunità della minoranza storico-linguistica dei rom e dei sinti
Parallelamente anche un altro settore dell’associazionismo rom, legato alla Fondazione Romanì, ha avviato una iniziativa sullo stesso tema, richiedendo soltanto il riconoscimento della lingua romanes fra le lingue minoritarie.
A prescindere dalla profonda diversità delle due iniziative, le riteniamo comunque fatti e segnali positivi, perché danno voce alle esperienze di mobilitazione dei rom e dei sinti e dimostrano come, accanto all’onnipresente discorso razzista e xenofobo, nel nostro paese ci siano anche settori sociali che pensano diversamente la convivenza.
Le proposte hanno suscitato un ampio dibattito, sia all’interno del mondo rom, sia nell’associazionismo pro-rom; un dibattito a cui OsservAzione intende oggi dare il suo contributo.
Riteniamo importanti entrambi i testi perché esprimono una serie di proposte e rivendicazioni che potrebbero effettivamente incidere sulle condizioni di vita di rom e sinti e sul rapporto con il mondo gagè. Ci riferiamo, ad esempio, alle norme che consentono l’utilizzo della lingua romanès nel rapporto con la pubblica amministrazione e nei media, alle provvidenze per l’editoria in lingua e all’impiego di mediatori linguistici.
Nella proposta sostenuta dalla Fondazione Romanì, questi temi rappresentano l’unico obiettivo e fissano il perimetro dell’intervento legislativo attorno al tema dell’utilizzo del romanes.
Diversamente, il testo della Federazione Rom e Sinti Insieme affronta un ventaglio decisamente più ampio di questioni, dall’abitare al diritto di famiglia, con un approccio politico alla questione rom che merita una discussione approfondita, seria e pacata.
Vorremmo innanzitutto chiederci cosa manca nell’ordinamento giuridico italiano, e perché si rende necessario un testo normativo specificamente dedicato ai rom e ai sinti.
Nel 2007, quando sostenemmo la proposta di legge di un gruppo di deputati di centro-sinistra, tra i quali l’on Mercedes Frias, ritenevamo che il nostro ordinamento avesse tutti gli strumenti per tutelare i rom e i sinti. Ad esempio, esiste già una legislazione contro la discriminazione che prevede ampie forme di tutela contro i trattamenti differenziali e le diseguaglianze fondate su base etnica o razziale. Sappiamo tutti che questa normativa è applicata in modo discontinuo e insufficiente: proprio per questo, tuttavia, è urgente non tanto varare una legge ad hoc per i rom e i sinti, ma rendere effettive le tutele già previste nel nostro ordinamento, in una prospettiva che, al di là delle norme, guardi alle politiche e alle azioni di contrasto efficace alla discriminazione.
Da un punto di vista strettamente normativo, siamo quindi dell’idea che sarebbe sufficiente aggiungere poche righe alla legge 482/99, inserendo anche rom e sinti tra le minoranze storico-linguistiche tutelate. In questo senso la proposta di legge della Fondazione Romanì ci appare, seppur con alcuni elementi problematici che di seguito intendiamo segnalare, decisamente più utile, proprio perché volutamente più limitata.
I rischi di una norma complessiva “solo per i rom e i sinti” ci appaiono in maniera evidente entrando nel merito della proposta della Federazione Rom e Sinti Insieme.
Molti articoli si aprono con l’enunciazione di alcuni diritti fondamentali, sanciti già dagli attuali strumenti giuridici internazionali e domestici, di cui si chiede però un’applicazione rigorosa anche alla minoranza rom e sinta. In particolare, il testo fa riferimento a questioni e diritti di rilevanza costituzionale, dal lavoro all’istruzione, dalla salute alla libera circolazione sul territorio nazionale e al connesso diritto di residenza.
La riaffermazione di diritti e tutele di valore generale in un testo dedicato a una sola minoranza rischia, a nostro giudizio, di creare ambiguità e fraintendimenti su un nodo decisivo, quello del carattere universale – erga omnes – dei diritti; il pericolo è cioè quello di distinguere e separare i rom e i sinti, presentandoli come vittime “eccezionali” o comunque diverse, laddove l’obiettivo dovrebbe essere quello di riportarli entro un contesto di tutela per tutti e per ciascuno. Qui non si tratta ovviamente di negare la specificità di alcune forme di discriminazione subite dai rom e dai sinti (si pensi al caso dei censimenti etnici, giustamente richiamato nella proposta di legge): si tratta piuttosto di ribadire che un diritto fondamentale deve valere per chiunque, e che la sua violazione – per quanto temporaneamente limitata a una sola minoranza – ne compromette l’universalità e la validità.
Da questa impostazione generale seguono poi una serie di misure concrete che risultano a nostro giudizio problematiche. A differenza della proposta che mira al riconoscimento della lingua romanès come minoranza linguistica storica, la legge di iniziativa popolare della Federazione Rom e Sinti Insieme prevede una serie di misure di discriminazione positiva basate sulla oggettiva (e ovviamente ineludibile) condizione di disagio di molti rom e sinti, ma anche sulla definizione di una serie di bisogni specifici, culturalmente connotati, che determinano quindi la necessità di interventi esclusivi.
Prendiamo ad esempio la questione centrale dell’abitare. Le misure proposte si basano sull’idea di un bisogno “rom” di preservare modalità di insediamento strutturate su famiglie allargate, cui si dovrebbe garantire la possibilità di vivere insieme o quantomeno vicine (art. 26 comma 1 lettere a e c, art. 27 comma 1 lettere b e c).
La questione è estremamente complessa perché parte da una legittima richiesta di alcuni gruppi, in particolare di sinti, di poter vivere su terreni agricoli con case mobili. Questa richiesta dovrebbe a nostro avviso essere studiata non solo per rom e sinti perché non esiste una questione dell’abitare che riguardi solo rom e sinti.
La proposta della Federazione affronta invece il problema attraverso il riferimento alla cultura, sulla base della quale si individuano bisogni specifici e si legittimano quindi misure esclusivamente destinate ai i rom e i sinti.
Di conseguenza, solo ai rom e ai sinti si attribuiscono diritti e possibilità che noi riteniamo debbano essere allargati a tutti i cittadini, a partire proprio dal diritto alla coesione di nuclei familiari allargati, peraltro centrali nella destrutturazione del welfare, o alla tutela di peculiari forme dell’abitare fondate sulla fruizione di spazi esterni o comuni.
Il riconoscimento di tali diritti collettivi dovrebbe comportare chiaramente un nuovo investimento politico sull’edilizia pubblica, e, ancora prima, una profonda riflessione politica e culturale che rimetta in questione da un lato i modelli abitativi e dall’altro l’idea di famiglia, finalmente da declinare al plurale nell’ottica di nuove forme di convivenza e socialità: tuttavia, in linea di principio, noi riteniamo che la tutela di queste esigenze debba valere per tutti coloro che le manifestano, e non debba legarsi alla preservazione di una “cultura” definita giuridicamente.
Nel testo della Federazione Rom e Sinti Insieme, la “cultura rom” ritorna costantemente a definire bisogni ed interventi anche in relazione a quei diritti universali cui si accennava prima: la troviamo ad esempio nell’art. 21 dove si parla di bisogni speciali per i minori appartenenti alla minoranza rom e sinta, o in tema di lavoro (art. 31 comma 6) dove riappaiono le capacità artigianali ed artistiche dei rom e dei sinti, e ancora nei diversi passaggi dedicati alla tutela dei diritti delle donne. La proposta di legge è costellata di una serie di incidentali che allargano o modificano la legislazione vigente in funzione della specificità culturale di rom e sinti. L’esito più radicale si concretizza nell’articolo 5 dove si prevede esplicitamente la possibilità di “conservare e di sviluppare la propria cultura nonché di preservare gli elementi essenziali della propria identità, quali la religione, la lingua, le tradizioni ed il patrimonio culturale”.
In questo passaggio, si mobilita esplicitamente l’idea di cultura come un ambito esclusivo e caratterizzante, uno spazio intimo che però deve essere pubblicamente garantito e tutelato dallo Stato nelle sue espressioni. Il diritto di vivere secondo un proprio stile di vita, e secondo proprie modalità di relazione liberamente scelte, è un diritto molto importante: ci chiediamo però quali conseguenze concrete possa avere questa declinazione politica delle nozioni di cultura e appartenenza.
La cultura è, per definizione, un oggetto dinamico e dai confini sfuggenti, è sottoposta alle tensioni prodotte dai rapporti di potere e delle forme di resistenza, è patrimonio mobile dei singoli individui che la incarnano, la rappresentano e la modificano secondo le rispettive strategie. In questa proposta di legge essa diviene invece strumento di governo, di definizione di bisogni e di attribuzione di strumenti e risorse, ben al di là delle specificità linguistiche, e questo pone, a nostro avviso, una serie di problemi rilevanti.
Pensiamo, solo per fare un esempio, alla condizione di molti giovani rom e sinti che nella loro esperienza quotidiana, nelle relazioni con i coetanei o nell’utilizzo di internet e dei social network entrano costantemente in contatto con stili di comportamento e di relazione radicalmente diversi da quelli cosiddetti tradizionali. Questi giovani costruiscono nuovi modi in cui dare forma alla loro appartenenza al mondo rom, mescolando forme e linguaggi, persino con il loro abbigliamento e le loro scelte estetiche. Si tratta spesso di piccoli cambiamenti e di pratiche nascoste, oppure di esperimenti che riescono a recuperare tratti dell’identità e delle appartenenze, come ad esempio nei testi romanès delle canzoni rap che giovani rom compongono a Sutka, a Belgrado o a Istanbul. Ma si tratta anche di cambiamenti più radicali che producono conflitti all’interno delle famiglie e dei gruppi rom, dove versioni dure ed ortodosse della tradizione impongono ruoli e destini ai singoli individui.
O ancora, pensiamo all’ambito delle relazioni tra i generi. Una legge che, direttamente o indirettamente, legittima un modello di “famiglia rom”, non rischia di tagliar fuori la pluralità di modelli di vita e di relazione domestica che si esprimono all’interno del pluriverso rom? E non rischia di occultare i conflitti che proprio su questo tema attraversano le minoranze rom e sinte, così come la società maggioritaria (conflitti di genere, tra uomo e donna, ma anche tra generazioni, tra differenti gruppi e orientamenti, e financo tra diversi individui)? Sono state proprio le femministe e le attiviste romnì (nell’Est Europa, ma non solo), a sollecitare una riflessione sulla cosiddetta “intersezionalità”: a spiegarci cioè che il patriarcato, le relazioni ineguali tra uomo e donna, così come i conflitti su ruoli e identità di genere, attraversano anche l’universo rom. Prefigurare per legge e mettere in campo nelle politiche concrete un modello di “famiglia rom” rischia di occultare conflitti, contraddizioni e cambiamenti che si producono ogni giorno – per fortuna, verrebbe da dire – tra i rom e tra i sinti (come tra i gagé, e come all’interno di qualsiasi gruppo).
La proposta della Fondazione Romanì ci sembra da questo punto di vista assai più condivisibile, perché non mette in campo una concezione “essenzialista” della cultura rom ma si limita ad intervenire sul diritto all’uso della lingua.
Eppure anche questa proposta riproduce, sia pure solo sul piano della lingua, un atteggiamento simile. L’articolo 2, comma 3 impegna infatti lo Stato ad un lavoro di “standardizzazione della lingua romanì, al fine di facilitarne lo studio e la trasmissione generazionale”. L’ipotesi della standardizzazione del romanì è, almeno dagli anni Settanta, una sorta di Santo Graal prospettato, senza mai essere stato raggiunto a nessun livello, da tutte le generazioni di intellettuali e attivisti rom. Di contro, generazioni di linguisti, molti dei quali storicamente attivi accanto e dentro l’associazionismo rom (tra gli altri Matras e Halwachs), hanno ampiamente mostrato l’impossibilità linguistica e l’inutilità politica della standardizzazione, poiché il romanès è già oggi, nella sua diversificazione storica e geografica, una lingua. La standardizzazione appare quindi come una operazione artificiale, o se si vuole, una opzione totalmente politica, che, nel tentativo di garantire visibilità e riconoscimento alla lingua dei rom, porta con se il rischio di occultare e svalorizzare la pluralità delle pratiche linguistiche, la pluralità degli sviluppi e delle trasformazioni in atto all’interno delle diverse comunità di parlanti romanès.
Evidentemente, l’ipotesi di intervento sulla lingua rom non equivale alla mobilitazione sul piano politico e normativo di una “cultura rom” quanto mai difficile da definire. La differenza riguarda le conseguenze sociali e politiche di tali interventi, perché mentre la proposta della Fondazione Romanì rischia, in parte, di costruire un referente linguistico artificiale lontano dai parlanti, la prospettiva verso cui tende la Federazione Rom e Sinti Insieme incorre in una serie di rischi e contraddizioni, separando, più che avvicinando, i gruppi Rom dalla società italiana, in nome di una specificità che garantirebbe servizi e risorse percepiti di nuovo, e paradossalmente, come “privilegi”.
Una prima avvisaglia di questi rischi la si può individuare già nei numerosi dibattiti on line fra alcuni gruppi di sinti e di rom, con i primi a rivendicare una loro ulteriore differenza irriducibile all’interno del complesso universo rom. Differenza linguistica in partenza, differenza di storia di seguito, e poi ancora differenze nei bisogni e nelle politiche come interventi.
Come le storie raccontate nel documentario Fuoricampo mostrano chiaramente, noi crediamo che esista invece una modalità di coniugare la propria appartenenza e la partecipazione piena e attiva nella società, un modello di cittadinanza forte e condivisa ancora tutto da costruire con l’impegno per i diritti di tutti e di ciascuno.