di Giuseppe Faso
Ci chiedevamo se si fossero diradate le manifestazioni di intolleranza di Magdi Cristiano Allam, ed eccolo puntare dritto su papa Francesco (l’articolo qui), bacchettandolo senza alcun riguardo. Ci tocca occuparcene, non tanto per cercare di dialogare con Allam (chi ci riesce?), ma perché siamo di fronte a un concentrato di argomentazioni di senso comune che ci capita di dover fronteggiare, con molto amore del prossimo, nei pochi luoghi pubblici rimasti.
Mostrando una cristiana attenzione all’impoverimento di masse crescenti di cittadini italiani, Allam, in sintonia con quello che in tanti si affrettano a dire, scrive che “sarebbe stato un gesto straordinario, forse doveroso, che la prima visita di Papa Francesco fuori Roma fosse riservata alla sofferenza degli italiani.”
Se proprio voleva mischiarsi agli immigrati, il papa poteva intercettare una delle varie proposte di tanti solerti consiglieri, e recarsi in “una delle innumerevoli mense dei poveri disseminate in tutt’Italia gestite dalla Caritas, dal Sant’Egidio o dall’Opera Francescana”, oppure “recarsi in uno dei purtroppo tantissimi quartieri degradati delle nostre metropoli, dove la povertà, la disoccupazione, lo spaccio di droga, lo sfruttamento della prostituzione e la criminalità spiccia od organizzata li rendono indegni di una nazione civile al punto da sfuggire al controllo delle forze dell’ordine”.
Nulla di tutto questo: Francesco preferisce recarsi in mezzo ai “clandestini”, con un gesto limpidamente apprezzato da chi, come Annamaria Rivera, da decenni spende le sue energie sulle reazioni inconsulte e miopi al fenomeno immigrazione (l’articolo qui). E se qualcuno volesse azzardarsi a ricordare l’incontro di Francesco (quello d’Assisi) con i lebbrosi, quello da cui tutto l’amarum (..) conversum fuit (proprio così scrive il colto assisiate, con una efficacissima illegalità grammaticale) in laetitiam, ci ha già pensato il senso comune (e Allam) a ricordare che “si tratta di clandestini e che il gesto del Papa è una esplicita, anche se non voluta, legittimazione della clandestinità. La clandestinità è un reato in qualsiasi Stato al mondo”.
Anche non volessimo occuparci della sconfessione del gesto del papa, ci pensa la prossima mossa da senso comune a stanarci, mettendo insieme, in un complotto teso alla “legittimazione della clandestinità”, oltre al nuovo papa (inconsapevole, perché in lui la legittimazione è “esplicita, anche se non voluta”, secondo il rispettoso Allam), la presidente Boldrini e la ministra Kyenge, “Carta di Roma”, e “relativisti, buonisti, globalisti e immigrazionisti”, tutti congiurati a cancellare la seconda parte della “esortazione evangelica ‘ama il prossimo tuo così come ami te stesso’”, cui Allam dichiara di attenersi. Veramente un lettore attento del vangelo dovrebbe notare una stonatura, una cicatrice nella citazione, segno di una (non voluta, forse, ma che importa?) forzatura: che permette ad Allam, appunto, di immaginare si possa congiurare all’eliminazione del “come ami te stesso”. Nel greco di Marco, 12, 29, si legge ajgaphvsei” to;n plhsivon wJ” seautovn, che vuol dire “amerai il prossimo come, quanto te stesso” e toglie, mi pare, la possibilità di cancellare il “come ami te stesso”, una fantasia catastrofico-depressova da cui bisognerà salvare Allam: “non è umanamente possibile amare il prossimo trascurando se stessi, o addirittura essendo costretti a disprezzare o persino odiare se stessi, pena il proprio suicidio”. Ma Gesù non ha detto: ama il prossimo (non “tuo”, si badi), come devi amare te stesso, bensì, ama chi ti capita vicino come già ti ami da te (la parafrasi, non bella, serve a evitare strane interpretazioni). Nessuno ci può invitare, né ci invita, a evitare di amare noi stessi per amare il prossimo: amare noi stessi sarà la misura con cui Gesù ci invita ad amare chi incontriamo: tanto, tantissimo. Altro sarà evitare orgoglio, narcisismo, chiusura nelle nostre convinzioni.
Non potendo scalfire la fede di chi vede dappertutto ”buonisti e immigrazionisti”, resta da proporre un chiarimento, ancora una volta, sul fantasma del “clandestino” che Allam vede messo a rischio dalla “legittimazione” del papa. Non è vero che quello di “clandestinità” sia un reato in ogni parte del mondo, è spesso una infrazione amministrativa (essere senza documenti), sancita come tale, ma combattuta sempre più spesso oltre le proporzioni volute dal diritto; ed era così anche in Italia fino a un intervento legislativo promosso dall’esponente della Lega Nord, ministro Maroni, che l’ha dichiarata “reato”, come ripete oggi il senso comune retrivo. Chi vuol mettere al bando la parola “clandestino” (come, su campagna di “Giornalisti contro il razzismo”, alcune agenzie di stampa a partire da “Redattore sociale” e poi la “Carta di Roma”) lo fa per ragioni di buon senso: innanzi tutto, perché non si tratta di termine neutro, esistente in natura o voluto da Dio, ma di epiteto in cui la connotazione stigmatizzante fa aggio sulla possibilità di denotazione; e secondariamente perché chi sbarca a Lampedusa spesso è una persona con caratteristiche tali che gli permettonono di richiedere asilo, procedura non sempre resa possibile dalle scelte governative e amministrative. Chiamare “clandestino” questa persona ancora prima che si imbarchi in Libia (come fecero prima di tutto ministri e uomini politici, non solo della Lega) rivela molto su chi parla, non sulla persona di cui si parla.
Che “clandestino” sia uno stigma preventivo e non un termine denotativo, lo dimostra Allam, inanellando uno dietro l’altro i tormentoni di senso comune sui “clandestini”. Ecco un passaggio significativo del suo articolo:
“Diciamo senza giri di parole che i clandestini sono conniventi con gli infami sfruttatori delle condizioni di miseria e disperazione da cui fuggono, perché volontariamente pagano una cifra che si aggira sui 1.000 dollari per salire su un’imbarcazione fatiscente che consente loro di attraversare il Mediterraneo (…) Pertanto i clandestini consapevolmente e concretamente commettono un reato condividendo con i loschi trafficanti di esseri umani la flagrante violazione della legge che è tale ovunque nel mondo”.
Una considerazione appena appena più equanime forse potrebbe aiutare a comprendere che se una profuga eritrea, dopo sevizie, stupri, chiusure nelle carceri del deserto libico, viene costretta a trovare i soldi per arrivare al primo suolo europeo e chiedere quanto le spetta secondo il diritto (lo status di rifugiata), il rapporto di responsabilità di leggi, polizie, Agenzie europee di allontanamento, trafficanti etc. è assai meno semplice, e che parlare di condivisione tra “clandestini” e scafisti è una scorciatoia che esime dall’analisi. Basterebbero i 40 minuti del documentario “Come un uomo sulla terra” per rendere più cauti e accorti. Ma c’è chi aveva gli occhi per vedere e non ha visto, etc., come da altro versetto del vangelo.
Allam mostra di essere altrettanto sbrigativo quando scrive: “A noi italiani non spetterà che accogliere incondizionatamente tutti coloro che si presentano alle nostre frontiere aderendo all’ideologia dell’immigrazionismo secondo cui gli immigrati sono buoni a prescindere dalle conseguenze della loro presenza nel nostro vissuto e nella nostra quotidianità”. No, si tranquillizzi, lui e chi ripete tali asserzioni: non tutti gli immigrati sono buoni (aggettivo che qui varrà, sembra: accettabili, validi, sul piano civile), come non lo sono tutti gli italiani.-