Potenziamento del sistema Sprar (Servizio protezione richiedenti asilo), revisione del regolamento Dublino, obbligo dell’Europa, come soggetto politico e istituzionale, di accogliere le persone che chiedono protezione: questi i punti principali sollevati dalministro dell’interno Angelino Alfano ieri, durante l’incontro con il Comitato parlamentare di controllo sull’attuazione dell’accordo Schengen, di vigilanza sull’attività di Europol (l’agenzia di polizia europea), di controllo e vigilanza in materia di immigrazione.
Il ministro dell’interno è tornato sull’argomento su cui si è concentrata l’attenzione di diversi esponenti politici e istituzionali in relazione al fenomeno migratorio, in particolare in questi ultimi mesi in cui si sono intensificati sbarchi, ossia il tema della responsabilità dell’accoglienza delle persone che cercano di raggiungere l’Europa per chiedere protezione. Sottolineando ancora una volta la responsabilità europea – e non di un singolo paese – Alfano ha sollecitato la comunità internazionale a “farsi carico di andare in Africa per fare l’accoglienza primaria in loco, prima che i richiedenti asilo partano. In Libia ci sono cittadini non libici pronti per partire. La comunità andasse in quei posti a fare accoglienza umanitaria”.
La proposta, che il ministro Alfano ha già avanzato più volte, è difficile da realizzare e molto lontana dall’assicurare la garanzia dei diritti umani, come sottolineano da tempo molte associazioni. La spiegazione, paradossalmente, la fornisce il ministro stesso ricordano “l’instabilità politica del Nord Africa, la situazione di frammentarietà in Libia ancora priva di un interlocutore di governo affidabile” e le “drammatiche condizioni di vita dei paesi” di provenienza dei richiedenti protezione. Questi, come sottolinea Alfano, sono gli elementi che fanno “ragionevolmente pensare a un trend migratorio in crescita”, dopo i quasi “40.000 sbarchi registrati nei primi 5 mesi dell’anno”.
Ma sono anche argomenti che dovrebbero suggerire l’impossibilità di creare soluzioni dignitose di prima accoglienza per le persone che cercano protezione nei paesi di partenza. La proposta di Alfano, se messa in pratica, rischia semplicemente di deresponsabilizzare ulteriormente l’Europa dall’approntamento di efficaci politiche di accoglienza, allontanando i profughi e i potenziali richiedenti asilo dal territorio nazionale, dagli occhi della società civile e dalle telecamere dei media.
Ma se il sistema di accoglienza in Italia non è all’altezza della situazione, che tipo di garanzie possono offrire dei territori di cui lo stesso ministro fa notare la fragilità sociale, politica ed economica? E’ difficile che paesi con situazioni come quelle descritte da Alfano possano garantire “adeguati standard d’accoglienza per i richiedenti protezione internazionale” e rappresentare un “posto sicuro dove poter ricevere informazioni sui propri diritti e avere una reale opportunità di formulare una domanda di asilo”, aspetti su cui l’Unhcr poneva l’accento già a fine marzo in occasione dell’audizione presso lo stesso Comitato parlamentare nell’ambito dell’indagine conoscitiva sui flussi migratori in Europa attraverso l’Italia. Allora l’Unhcr – e tante altre associazioni che ogni giorno si battono per la tutela dei diritti – sottolineava la necessità di una maggior pianificazione delle misure di accoglienza per i richiedenti asilo, al fine di non arrivare “a breve a una condizione difficilmente gestibile”. Una pianificazione che secondo l’Unhcr non può prescindere da “una più ampia riforma del sistema asilo italiano”. Non solo: la normativa italiana relativa agli ingressi – non solo dei richiedenti protezione, ma anche delle persone che provano a venire in Europa per lavoro – è estremamente rigida, e rende difficile l’ingresso legale, costringendo donne, uomini e bambini ad affidarsi a viaggi costosi ed estremamente rischiosi.
Le parole del ministro dell’Interno non sembrano però segnalare un’inversione di rotta bensì un proseguimento nella strategia del controllo e dell’esternalizzazione: se da una parte non c’è alcun accenno a una revisione della normativa di ingresso, dall’altra si sollecita un ulteriore rafforzamento delle misure di controllo dei mari e delle frontiere. Durante l’incontro di ieri il ministro ha chiesto che Frontex con Europol “veda rafforzato il suo ruolo di regia e di coordinamento in materia di immigrazione degli stati membri”, proponendo anche di spostare la sede di Frontex “al centro del Mediterraneo”, anzi in Italia.
E’ necessario, sì, pianificare un coordinamento, ma non del controllo bensì della protezione, come sottolineava poco tempo fa la portavoce dell’Unhcr Carlotta Sami.
Rispondendo alla questione degli allontanamenti dai centri di accoglienza, Alfano ha parlato di “allontanamenti spontanei dai centri motivati dalla necessità degli stranieri di trasferirsi verso altri paesi, prevalentemente nel nord Europa”. Il Regolamento Dublino obbligherebbe invece i richiedenti protezione a fare domanda nel primo paese di arrivo, e lì aspettare l’esito della richiesta– di fatto limitandone il diritto all’autodeterminazione -: in altre parole, la competenza della protezione del richiedente spetta al primo paese in cui la persona fa ingresso. Proprio su questo punto Alfano ha espresso la volontà di intervenire durante il semestre italiano di presidenza UE per portare avanti “una decisa azione di revisione del principio di primo ingresso previsto dal regolamento di Dublino”.
Dal punto di vista nazionale il ministro ha annunciato l’avvio di “tutte le iniziative necessarie per incrementare la ricettività del Sistema di protezione dei richiedenti asilo e rifugiati (Sprar) gestito dagli enti locali, già portata ad una capienza di 12mila unità e che in breve sarà elevata a circa 20mila”: un ampliamento auspicabile e, va sottolineato, da gestire in modo omogeneo in tutte le regioni italiane, con standard uniformi e controllati che permettano reali percorsi di inserimento in prospettiva dell’autonomia individuale.
Infine, rispondendo a un’interrogazione sul Cie di Gradisca d’Isonzo presentata dall’onorevole Giorgio Brandolin, membro del Comitato, il ministro ha comunicato che la struttura “necessita di lavori di ristrutturazione per il ripristino della sua piena funzionalità”, ipotizzando la riapertura del centro e la sua “possibile destinazione all’accoglienza dei richiedenti protezione, in considerazione del loro crescente numero”; possibilità che “è oggetto di una attenta riflessione del Ministero dell’Interno, che non mancherà di confrontarsi con gli organo di governo locale”. Si prospetta quindi una trasformazione del Cie in Cara (Centro Accoglienza Richiedenti Asilo)? Per ora non c’è alcuna certezza. Il prefetto di Gorizia Vittorio Zappalorto ha affermato che “il ministro Alfano ha assicurato di voler seguire le istanze del territorio”, sottolineando che “i politici locali hanno assunto un orientamento ben preciso sull’argomento”. Un orientamento che va contro il Cie, ma anche contro il Cara, strutture di grandi dimensioni che non si sono mostrate, in questi anni, in grado di offrire un’accoglienza adeguata. Sicuramente risulta più auspicabile un sistema di accoglienza decentrato e distribuito in strutture di piccole dimensioni, come previsto dal sistema Sprar, piuttosto che il modello “contenitivo” dei Cara. Intanto, le associazioni del territorio sollecitano ora “una risposta politica locale e l’ufficializzazione della chiusura definitiva del Cie”, come ricorda la Tenda per la pace e i diritti.