Omar accende un fuoco per scaldare dell’acqua e lavarsi. Viene dal Mali ed è in Italia da quattro mesi. Anche Ibrahim viene dal Mali, ha 27 anni, è in Italia da due mesi. Sta leggendo il libro del corso di italiano che frequenta presso la comunità di Sant’Egidio. Entrambi sono arrivati passando per la Libia, per quell’orrore fatto di percosse e detenzioni documentato e denunciato più volte e da voci diverse: comprese le loro, che ci confermano quanto già testimoniato da altri. Entrambi hanno presentato richiesta di protezione internazionale, e ora aspettano che arrivi l’appuntamento con la Commissione territoriale: per entrambi, sarà a metà gennaio 2018.
Altre persone stanno giocando a carte: sono cinque ragazzi, dai 26 ai 29 anni, e sono tutti sudanesi. Loro non hanno ancora presentato la richiesta di protezione: lo vogliono fare, ma ancora non sono riusciti a formalizzarla. I tempi burocratici purtroppo sono piuttosto lunghi. Nel frattempo, due di loro stanno maturando l’idea di non aspettare più, e provare a partire per il nord Europa. Gli altri invece vorrebbero rimanere in Italia: “se riesco a ottenere il documento vorrei restare, trovare un lavoro..”.
Sono alcune delle persone presenti al “presidio” che si trova in fondo a via Gerardo Chiaromonte, uno spazio denominato piazzale Maslax – in ricordo del 19enne somalo che a marzo si è tolto la vita dopo essere stato respinto dal Belgio, dove vive la sorella- dietro la stazione romana di Tiburtina. Le virgolette sono necessarie, perché di fatto ci troviamo in un piazzale vuoto, di proprietà delle Fs (a cui Baobab Experience ha inviato tempo fa un appello, senza ricevere alcuna risposta) ma di fatto abbandonato, dove l’assenza delle istituzioni è palpabile. “Qui l’anno scorso ho portato mia figlia a fare le guide col motorino. E’ un posto perfetto: non ci viene mai nessuno, è lontano dal passaggio delle auto. Ma da quanto tempo queste persone vivono così…”, ci dice un signore, che si guarda intorno incredulo. Ora, a dicembre, le persone dormono nelle tende da campeggio donate dai privati. Non ci sono bagni di alcun tipo. L’unico intervento presente è quello dei volontari di Baobab Experience – l’associazione nata a seguito dello sgombero di via Cupa, ormai due anni fa – e dei membri di altre associazioni, che provano a fare quello che le istituzioni non fanno: fornire un sostegno legale, un’assistenza medica, dare qualche infarinatura linguistica. E anche garantire alle persone presenti tre pasti al giorno, coperte calde: il minimo indispensabile, che arriva da donazioni. “Qua ora fa molto freddo. E’ difficile. Ma ho superato tanti problemi nel mio paese. Ho superato la Libia”, ci dice sorridendo un ragazzo di 26 anni, proveniente dal Gambia.
Di fronte all’inerzia delle istituzioni, è stata costituita una rete legale, promossa da A Buon Diritto, Baobab Experience, Cir – Consiglio italiano per i rifugiati e Radicali Roma. Sono 322 le persone seguite da questa rete, per il periodo compreso tra aprile a ottobre 2017. E sono molti i problemi emersi, di cui i membri della rete hanno dato conto ieri a Roma, durante la presentazione del terzo bilancio delle attività. Si va dalla generica mancanza di informazioni contro cui si scontrano le persone che arrivano in Italia, cui spesso non vengono comunicati i diritti che hanno e i percorsi a cui possono accedere – come ad esempio il programma europeo di relocation, oppure la procedura di protezione internazionale – a problematiche più specifiche del territorio romano: ad esempio il fatto che, per l’inoltro della domanda di protezione, la questura non accolga più di 20 persone al giorno, spesso decidendo anche in base alla nazionalità delle stesse. E’ per questo motivo che di notte davanti alla questura di via Patini si creano veri e propri bivacchi: sono le persone che provano a essere le prime a presentarsi davanti alla porta. “Ancora non è dato sapere perché gli appuntamenti non vengano fissati per via telematica”, commenta Francesco Portoghese, di A Buon Diritto.
Un altro ostacolo all’inoltro della domanda di protezione è rappresentato dalla richiesta del passaporto: un documento che molti richiedenti asilo non possiedono. “La questura pretende il passaporto, o la denuncia di smarrimento. Eppure, questo non è obbligo normativo”, prosegue Portoghese. Questa prassi illegittima non si traduce ‘solo’ in un rallentamento dell’iter: molte persone non riescono a presentare la domanda di protezione, e rimangono bloccate, senza documenti, per anni. Ancora peggio, alcune, seguendo la sollecitazione della questura, si recano nei commissariati di zona per formalizzare la denuncia di smarrimento del passaporto: ma quello che ricevono è un provvedimento di espulsione. E’ quanto successo a un cittadino egiziano seguito dalla rete legale, a cui è stato notificato un decreto di espulsione “dopo 8 ore di trattenimento, senza concedergli la possibilità di comunicare con un mediatore o con un avvocato”, denuncia la rete.
“Il sistema di accoglienza deve garantire informazione, dignità e opportunità”, si legge nel dossier presentato ieri. Purtroppo, la realtà dei fatti è diametralmente opposta: le persone (quando) vengono accolte si trovano bloccate in un sistema assistenzialista – spesso all’interno di strutture indecenti che non rispettano le condizioni minime di vivibilità – che non aiuta nella costruzione di reali percorsi di autonomia. Il 20% delle persone che, da aprile a ottobre 2017, hanno dormito nelle tende presenti a piazzale Maslax, è titolare di un documento per protezione internazionale ed è fuoriuscito dal circuito dell’accoglienza. Eppure, sono persone di fatto private dei propri diritti: non hanno alcun strumento per la ricerca di un lavoro, né riescono a garantirsi, di conseguenza, il pagamento di una casa – all’interno di una città, Roma, dove il mercato degli affitti è totalmente fuori controllo. “Sono titolari di diritti, senza diritti. Sono persone che escono dal circuito dell’accoglienza peggio di come erano entrate: perché sull’accoglienza non si investe, e quindi non funziona come dovrebbe”, denuncia Giovanna Cavallo, membro della rete.
La mancanza di diritti investe anche l’ambito della sanità: sono moltissime le persone che non vedono garantito la tutela del diritto alla salute. Medici per i Diritti Umani, attraverso l’unità mobile, interviene nei contesti in cui le istituzioni non si fanno vedere: uno di questi è proprio piazzale Maslax. Nel corso del 2017 sono stati 684 i pazienti visitati: di questi, l’84% non aveva mai avuto accesso alle cure. “Attraverso le nostre attività, noi purtroppo vediamo sia la testa, sia la coda di questa mancanza di accoglienza”, afferma Adelaide Massimi, coordinatrice dell’unità mobile. “A piazzale Maslax c’è soprattutto la testa: le persone non ricevono alcuna informazione al loro ingresso in Italia o nei centri di prima accoglienza, non sanno dove andare, non hanno alcuna rete, e quindi si trovano qui, spesso anche in attesa che qualcosa cambi nella loro vita, ossia di riuscire a ottenere l’appuntamento con la Commissione per la protezione internazionale, oppure che vengano chiamate per il programma di relocation. In altri posti, come ad esempio alla stazione Termini, o a Tor Cervara, dove incontriamo le persone che vivono in un palazzo occupato, vediamo la coda: persone fuoriuscite da un sistema di accoglienza che non funziona, che, proprio per questo malfunzionamento, vivono sulla propria pelle il passaggio diretto dal centro alla strada”.
E la politica? “La sala operativa sociale del Comune di Roma viene più o meno ogni giorno” – afferma Andrea Costa (Baobab Experience) – “gli operatori chiedono se ci sono vulnerabilità, e anche quando rispondiamo affermativamente ci viene risposto che non ci sono posti nei centri”. Del resto, la responsabilità di questa situazione non può ricadere sugli operatori di un servizio, che peraltro il Comune di Roma appalta a una cooperativa. E’ la politica a doversi assumere le proprie responsabilità. Eppure, né il sindaco Raggi, né l’assessore alle politiche sociale Baldassare si fanno mai vedere da queste parti.
Serena Chiodo