Scarsa preparazione, abuso di potere, violenza, razzismo, omertà e malessere diffuso all’interno delle forze dell’ordine. E’ questo il quadro che emerge dal libro del giornalista Valentin Gendrot (Flic, un journaliste a infiltré la police – Editions Goutte d’Or, 2020), frutto dei due anni trascorsi da infiltrato nei ranghi della polizia. Un viaggio in incognito nel commissariato del XIX arrondissement che gli ha permesso di portare alla luce due grandi tabù: da una parte la violenza delle forze dell’ordine, dall’altra le condizioni di lavoro e il malessere della polizia stessa.
Il giornalista presenta il suo libro in un video disponibile qui: https://www.lemediatv.fr/emissions/2020/le-temoignage-accablant-dun-journaliste-infiltre-2-ans-dans-la-police-6ZuUKBmyTwmRbO8ukd_78g
La “carriera” di Gendrot comincia nel settembre 2017, quando si iscrive all’ École nationale de police de Saint-Malo. Una formazione che dura 3 mesi e che il giornalista definisce approssimativa e low cost: “Dopo 3 mesi solamente ho avuto un’abilitazione per portare un’arma sulla via pubblica, potevo andare in strada con l’uniforme e la pistola, ciò mi ha fatto pensare: ‘beh è davvero la polizia low cost’. Lo stesso corso sulle violenze coniugali dura 3 ore. E’ alla fine della formazione e quelle 3 ore ricordano un corso di inglese di fine anno: un’ora teorica e due ore dedicate alla visione di un film. Altro aspetto che evidenzia l’inadeguatezza della preparazione è il fatto che appena l’1×100 del tempo è dedicato al codice deontologico, quello che dovrebbe reggere le pratiche e le azioni della polizia e dei gendarmi in Francia!”
Il 24 novembre 2017, Gendrot diventa ufficialmente membro della polizia francese, con il grado di assistente alla sicurezza. I tempi di attesa però sono più lunghi del previsto. Invece dei 3 mesi di corso, più 6 da infiltrato, Gendrot finisce per passare 15 mesi all’interno delle forze dell’ordine. Terminata la formazione, infatti, viene inserito in un servizio chiamato “infermeria psichiatrica della prefettura di Parigi” e solo successivamente, dopo aver fatto domanda per un commissariato popolare, viene assegnato al XIX arrondissement. Senza che però nessuno si prenda davvero la briga di verificarne l’effettiva preparazione: “Proprio prima di andare in commissariato, sono andato su un tutorial per vedere come far funzionare un’arma, perché era una cosa che avevo completamente dimenticato dopo 15 mesi”.
Gli abusi
Appena messo piede in commissariato, lo shock è immediato. Sin dai primi giorni è testimone di diversi abusi da parte della polizia: “Sono rimasto esterrefatto, subito ho visto un mio nuovo collega picchiare una persona in custodia semplicemente perché domandava di andare al bagno.” Violenze ripetute, che non sono un’eccezione ma, per alcuni, un vero e proprio modus operandi: “Un martedì siamo stati chiamati perché sotto un palazzo dei giovani facevano rumore con un amplificatore. Arriviamo sul posto, domandiamo agli adolescenti di spegnere lo stereo. Lo fanno, procediamo a controllare i loro documenti e a perquisirli. Eravamo sul punto di partire, cessata l’infrazione, quando un poliziotto si avvicina all’adolescente e gli dice: ‘sono stufo di venire qui per queste stupidaggini, credete che non abbiamo niente da fare?’. Poi gli tira uno schiaffo. L’adolescente allora, ovviamente umiliato davanti ai suoi amici, lo provoca, il poliziotto fa lo stesso e comincia a picchiarlo. Le cose poi degenerano: viene picchiato in macchina e poi di nuovo in commissariato”.
Il razzismo
Ad aggravare un quadro già di per sé deprimente, è il razzismo. Gendrot, infatti, riferisce che abusi e violenze avvengono sempre ai danni di persone nere, arabe e migranti: “Ho assistito regolarmente a delle violenze: sono sempre fatte verso persone di colore, d’origine araba e migranti, sempre. Ne ho visti diversi di migranti, 3,4 farsi condurre in un furgone, picchiati in un furgone per poi essere rilasciati a 4/5 chilometri dal luogo in cui sono stati presi”. Un razzismo, d’altronde, che, anche quando non sfocia direttamente nell’aggressione fisica vera e propria, è comunque sempre ben radicato nel linguaggio e nel lessico poliziesco attraverso l’uso di epiteti e soprannomi fortemente dispregiativi. Esemplare, a riguardo, l’utilizzo del termine batards: “termine generico per designare di solito dei ragazzi neri di origine araba o dei migranti, è la parola che si utilizza tra poliziotti.”
L’omerta’
L’aspetto probabilmente più scioccante, che emerge dal racconto di Gendrot, non sono tanto la violenza e il razzismo in sé, quanto l’omertà con cui vengono puntualmente occultati. Tutto avviene costantemente ‘sotto i radar’, mai sulle onde radio della polizia, senza che nulla venga mai scritto, riportato o denunciato. Se effettivamente a macchiarsi di abusi di potere è una minoranza di poliziotti, a coprirne accuratamente i misfatti è però la maggioranza. Che si tratti di alti ranghi o di colleghi semplici, nessuno denuncia. Tra poliziotti non ci si accusa, vige un corporativismo ferreo, magari non si condividono certi comportamenti ma il silenzio rimane d’obbligo, sottolinea il giornalista. Chi osa denunciare è un traditore e come tale va trattato. Gendrot, dopo aver riportato l’episodio del pestaggio del giovane adolescente, reo di aver tenuto la musica troppo alta e di aver risposto al poliziotto, testimonia un secondo reato, ad esso connesso, da parte delle forze dell’ordine, questa volta a porte chiuse, il falso in atto pubblico: “La sera stessa un ufficiale di polizia va a redigere un verbale e ovviamente nel verbale non vi è alcun riferimento né alle percosse né agli insulti da parte del poliziotto mentre viene accusato il ragazzo. Viene coperto l’abuso, da me e altri due colleghi, e questo si chiama falso in atto pubblico, considerato come un crimine e passibile di 15 anni di prigione”
Gendrot però più che giudicare cerca di capire. Se, da una parte, infatti, non si risparmia nel denunciare reati e abusi da parte della polizia, dall’altra ne evidenzia le pessime condizioni di lavoro, la scarsa tutela e il burn out che ne deriva. Un malessere che, oltre a influire sui comportamenti professionali, provocando gravi deformazioni del codice deontologico, porta il corpo di polizia a collocarsi al secondo posto tra i mestieri con il tasso più alto di suicidi: “Nella polizia nel 2019 ci sono stati 59 suicidi, il secondo mestiere in Francia. Ho assistito in prima linea al suicidio di un poliziotto del XIX. C’è un gran malessere, le condizioni di lavoro sono complicate, il commissariato è vetusto, le automobili non funzionano, spesso neanche i materiali, da fuori si ha l’impressione che sindacati e ministro degli interni difendano la polizia ma da dentro ci si rende conto del divario tra i quadri e i poliziotti comuni, di tutti i giorni, quelli di quartiere”.
Il malfunzionamento del sistema
Ciò che, in definitiva, sembra emergere dal reportage è che più che le singole mele, ad essere marcio è l’intero sistema. Il singolo abuso, la singola violenza, non sono che il risultato di un sistema strutturalmente inefficace, le cui lacune, permettono, e a volte addirittura favoriscono, il proliferare di comportamenti inaccettabili e in alcuni casi criminali. Chi abusa sa di rimanere impunito, non ha ricevuto una formazione efficace, probabilmente è il risultato di un meccanismo di selezione rivedibile e ancora più probabilmente sente di essere abbandonato a sé stesso. Un sistema che fa acqua da tutte le parti e che uno stato democratico non può permettersi di lasciare andare alla deriva. In Francia, ma non solo. Del resto, i fatti inerenti il commissariato di Piacenza, dimostrano, infatti, come quanto denunciato da Gendrot sia tutt’altro che una realtà prettamente transalpina.
Un rigido controllo in fase di selezione per valutare l’idoneità del candidato, una formazione adeguata alla delicatezza del ruolo, un meccanismo di controllo non autogestito ma che preveda verifiche esterne e un supporto psicologico costante alle forze dell’ordine che aiuti a prevenire i rischi del burn out: sono le quattro priorità, suggerite dal lavoro di Gendrot, da cui partire e su cui intervenire per evitare di ricadere in quel campionario di abusi, violenze e razzismo che, periodicamente, coinvolge quasi tutte le democrazie.
Come era prevedibile il libro di Gendrot ha suscitato in Francia forti polemiche. Sostanzialmente i rimproveri mossi al giornalista sono due: la mancata denuncia dell’abuso di cui è stato testimone e la scorrettezza deontologica. Riguardo quest’ultimo aspetto, infatti, la Carta dell’etica professionale dei giornalisti vieterebbe, il ricorso a ‘qualsiasi mezzo sleale’ per ottenere informazioni. Gendrot rivendica la sua scelta che definisce necessaria “andare dove nessuno va mai e mostrare al grande pubblico quelle zone grigie dove nessuno ha il controllo su ciò che accade”. La mancata denuncia da parte dell’autore dell’abuso compiuto da parte delle forze dell’ordine e raccontato nel libro ha indotto invece la prefettura ad aprire un’indagine per determinare le ragioni per cui i presunti fatti non sono stati immediatamente denunciati al pubblico ministero. Su questo punto il giornalista ha sostenuto di “aver deciso di coprire un abuso per poterne denunciare altri mille”.
Lorenzo Lukacs